Il decreto, in corso di conversione, che destina i centri albanesi anche a Cpr, presenta profili di illegittimità che probabilmente saranno rilevati pure dai giudici. E c’è il rischio di danno erariale, anche per i cost derivanti dal fatto che i migranti devono comunque tornare in Italia prima di essere rimandati al loro paese
Mentre la gestione delle strutture in Albania avviene nell’opacità, sottraendo alla conoscenza pubblica quanto accade ai migranti, è in discussione alla Camera la legge di conversione del decreto (37/2025) che destina tali strutture anche a centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).
Esse erano previste solo per stranieri provenienti da paesi sicuri, salvati in acque internazionali da mezzi delle autorità italiane. Ma alcuni ricorsi alla Corte di giustizia dell’Unione europea hanno determinato uno stallo. E così, in attesa della pronuncia della Corte, il governo ha stabilito che nel centro di Gjader siano trasferite anche persone presenti in Cpr italiani, già colpite da provvedimenti definitivi di rimpatrio. La decisione presenta profili di dubbia legittimità, evidenziati da esperti nelle audizioni in parlamento.
Il diritto di difesa
Come avviene la scelta delle persone da portare in Albania? Non è dato saperlo. Il decreto non precisa i criteri di selezione e, in base al Testo unico sull’immigrazione, lo spostamento di un migrante in un Cpr diverso da quello di originaria assegnazione non è necessariamente deciso con un provvedimento munito di motivazioni, né è richiesta una convalida dell’autorità giudiziaria. Tutto questo viola la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione previste dall’articolo 13 della Costituzione.
Sussistono, inoltre, irragionevoli differenze di trattamento tra i migranti trattenuti nei Cpr in Albania rispetto a quelli che si trovano in Cpr italiani. I primi hanno contatti con i loro avvocati difensori solo da remoto, e questo può minare l’effettiva garanzia del diritto di difesa. Diritto messo a rischio anche dal fatto che lo straniero sia interrogato da un giudice non di persona, ma solo in videoconferenza. E non basta.
La legge di ratifica del Protocollo con l’Albania attribuisce al «responsabile italiano del centro» il compito di adottare «le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesa dello straniero». In altre parole, la difesa è lasciata alla discrezionalità del funzionario amministrativo, in violazione dell’articolo 111 della Costituzione, secondo cui «il giusto processo» dev’essere regolato dalla legge, e dell’articolo 24 della Costituzione, che impone l’accessibilità a un «ricorso effettivo».
Peraltro, nei Cpr in Albania, rispetto a quelli situati in Italia, è anche difficile e oneroso ricevere la visita di familiari, amici e associazioni; fruire delle cure che qui sono garantite dal servizio sanitario; chiedere asilo o protezione internazionale.
Le coperture finanziarie
Né il testo del decreto legge, né la relazione illustrativa della legge di conversione indicano i costi derivanti dall’uso dei centri albanesi anche come Cpr. Si afferma che la nuova destinazione avviene nei «limiti delle risorse previste», ma ciò non dissipa i dubbi di violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone obblighi di copertura finanziaria.
I costi coperti sono solo quelli originari di trasferimento e detenzione di migranti assoggettati a procedure accelerate di frontiera, la cui durata è per legge pari a 28 giorni. Invece, il trattenimento nei Cpr può protrarsi fino a 18 mesi. E costi ulteriori derivano dal fatto che i migranti – in conformità alla vigente direttiva europea (2008/115/CE), nonché alla recente proposta di un nuovo regolamento Ue – devono comunque tornare in Italia prima di essere rimandati al loro paese, com’è avvenuto per i primi rimpatri di persone trattenute a Gjader.
L’uso dei centri in Albania come Cpr è stato voluto dal governo non solo per dare un senso a quel «fun-zio-ne-ran-no» scandito da Giorgia Meloni ad Atreju, ma forse anche per depotenziare l’accusa di danno erariale contenuta in esposti presentati alla Corte dei conti. Il confronto con i costi dei Cpr italiani attesta comunque lo spreco di risorse pubbliche.
La questione di incostituzionalità
Sarebbe bene si tenesse conto dei rilevati profili di possibile incostituzionalità, che probabilmente emergeranno pure in sede giudiziaria, come sta accadendo in altri casi.
Da ultimo, il 2 maggio scorso, la corte d'Appello di Lecce ha sollevato la questione di legittimità del decreto Flussi, convertito in legge nel dicembre 2024. Il decreto, voluto dal governo a seguito delle mancate convalide dei trattenimenti in Albania da parte della sezione immigrazione del tribunale di Roma, aveva spostato la relativa competenza alla corte d’Appello.
Tra i profili di dubbia costituzionalità c’è la mancanza dei motivi di necessità e urgenza (articolo 77) che giustificano l’adozione del decreto legge; la violazione del principio del giudice naturale (articolo 25), poiché una convalida assegnata a giudici di secondo grado rappresenta un’anomalia; l’eccessiva compressione del diritto di difesa (articolo 24) nel ricorso per Cassazione contro i provvedimenti delle corti d’Appello; l’irragionevolezza del cambio di competenza (articolo 3), in quanto le sezioni specializzate dei tribunali hanno un’esperienza in tema di immigrazione di cui le corti non dispongono.
Le forzature sul piano del diritto non sono mai una soluzione. Peccato che il governo si ostini a non capirlo.
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