Con il motu proprio Spiritus Domini papa Francesco ha istituzionalizzato una prassi che, di fatto, già avveniva in numerose chiese locali da decenni, vale a dire l’accessibilità ai ministeri del lettorato e dell’accolitato alle donne laiche, previa autorizzazione vescovile. Eliminando la parola latina viri (uomini) dal comma di un canone, papa Francesco ha così adattato il diritto canonico a una consuetudine radicata. Un’iniziativa significativa, che punta i riflettori sul ruolo delle donne laiche nella chiesa. Ma è molto affrettato considerarla l’ultimo atto di una presunta “rivoluzione rosa” firmata da papa Francesco.

È indubbio che, durante il suo pontificato, il papa argentino abbia puntato a un’integrazione graduale delle donne in organismi finora sovrintesi da uomini. Ma questo cambiamento della cultura istituzionale vaticana va inteso come un’opposizione alla macchina burocratica piuttosto che un’improbabile assegnazione di quote rosa. Per di più, secondo un processo culturale e sociale comune a tanti altri stati nel mondo, la Santa sede prende atto del valore e dell’autorevolezza delle donne nella gestione della cosa pubblica: «Le donne in genere sono migliori degli uomini come amministratori. Comprendono meglio i processi, come portare avanti i progetti», ha detto il pontefice nel recente libro-intervista Ritorniamo a sognare (Piemme, 2020).

Donne e gerarchia

Superando quanto concesso da papa Paolo VI, in passato Giovanni Paolo II aveva sottolineato il ruolo di tutti i laici – donne incluse – nel servizio liturgico all’altare.

Andando a ritroso, sul solco di quanto già affermava papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris sull’«ingresso della donna nella vita pubblica» e «la presa di coscienza della propria dignità», Bergoglio assegna alle donne ruoli che rischiano di essere attanagliati dal clericalismo delle gerarchie vaticane. Oggi la Santa sede conta sei donne al Consiglio per l’economia, tre consultori donne alla Congregazione per la dottrina della fede e due alla Congregazione per il culto divino, per citare alcune posizioni di leadership. Il tema del laicato delle donne è strettamente connesso all’antica questione del sacerdozio femminile, tornata recentemente alla ribalta con le prese di posizione di parte della chiesa francese e tedesca. Sul tema, papa Francesco ha incoraggiato l’apertura di un processo, ma non si è discostato da quanto aveva ribadito papa Giovanni Paolo II negli anni Novanta. La Comunione anglicana aveva appena autorizzato l’ordinazione delle donne quando, con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, papa Wojtyła ribadì, sul piano dogmatico, quanto affermato da papa Paolo VI sull’impossibilità di ordinare donne: «La Chiesa cattolica non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale». I suoi due successori non si sono opposti alla linea dottrinale: degno di nota il motu proprio Omnium in mente (26 ottobre 2009), con cui papa Benedetto XVI ha declassato il diaconato rispetto al presbiterato ed episcopato. Quando, durante i lavori del sinodo per l’Amazzonia, si è rafforzata la richiesta delle correnti progressiste di comprendere pienamente le donne in una comunione ecclesiale, papa Francesco non ha ammesso le “aperture” paventate da alcuni: riconoscere il ruolo essenziale delle donne in aree marginali dell’America Latina non è bastato ad assecondare la possibilità di una loro ordinazione. «Se tutte le donne morissero, la liturgia potrebbe essere celebrata (…). Ma se morissero gli uomini, le battezzate non potrebbero più avere una vita sacramentale piena» è la riflessione paradossale, ma illuminante, che ha dato la docente di filosofia morale Maria Cristina Bartolomei.

Per molte donne che rivestono ruoli attivi si devono compiere ancora passi importanti per picconare la

cultura androcentrica della Chiesa. «I cambiamenti strutturali necessari per eliminare il fenomeno esigerebbero una chiesa che smetta di definirsi gerarchica. Ma non mi pare che oggi i cardinali o la curia romana siano disposti ad accettare l’idea che la chiesa, comunità di discepoli di Cristo impegnati per la costruzione del regno di Dio, non abbia bisogno della gerarchia», diceva due anni fa la teologa messicana Maria Pilar Aquino.

Contro le aperture dei tedeschi

Da un papa che ha fatto della sinodalità la cifra distintiva del suo pontificato, i processi inaugurati forniscono spunti antropologici, ma non risolvono le dispute teologiche. Il tema della posizione delle donne nella liturgia è tra queste. Perfino sulla questione del diaconato femminile, la Santa sede non è arrivata a una conclusione definitiva nonostante l’imponente lavoro della Commissione teologica internazionale nel 2003 e quello delle due Commissioni di studio volute da papa Francesco a partire dal 2016. Dopo aver accolto l’iniziativa dell’Unione internazionale delle superiori generali (Uisg), era stato lo stesso Bergoglio a nutrire alcuni dubbi: «Sul caso del diaconato, dobbiamo cercare cosa c’era all’inizio della Rivelazione, e se c’era qualcosa, farla crescere e che arrivi… Se non c’era qualcosa, se il Signore non ha voluto il ministero, il ministero sacramentale per le donne non va. E per questo andiamo alla storia, al dogma», aveva detto con franchezza nel corso dell’assemblea plenaria il 10 maggio 2019. Non basta, dunque, la spinta di rinnovamento della teologia femminista latinoamericana che Bergoglio conosce bene per dipingere le iniziative di Roma come aperture liberal. Valga, più di qualsiasi dietrologia, quanto avvenuto nel Cammino sinodale della chiesa tedesca, dove l’entusiasmo di alcuni presuli sul sacerdozio femminile è stato smorzato da una lettera della Congregazione per la dottrina della fede: l’ennesimo caso che mostra come alcune azioni, altrove percepite come distensive, sono il pallido riflesso di una volontà di riforma della chiesa che non avviene dall’oggi al domani. Un po’ di pinkwashing non cambia la sostanza.

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