Come promesso, nei suoi primi giorni di presidenza Trump ha promulgato una valanga di ordini esecutivi. Quasi il doppio rispetto a Joe Biden, che già era stato di molto sopra alla media storica; quattro volte di più se confrontato con il Trump I di otto anni fa.

Di ordini esecutivi, così come di altri strumenti di azione presidenziale, si abusa ormai da decenni, in concomitanza con una difficoltà di legiferare – un crollo della produttività legislativa – che consegue alla radicale polarizzazione e alla crescente incapacità di raggiungere quei compromessi al Congresso indispensabili per completare l’iter di approvazione di una legge.

Gli ordini esecutivi possono surrogare questa incapacità di dare codificazione legislativa a determinate politiche. Sono però esposti a qualsiasi mareggiata elettorale, laddove un cambio politico di amministrazione porta come primo effetto quello della loro immediata annullazione. Sono insomma strumenti di governo a breve, dalla debolissima efficacia riformatrice e trasformativa.

Anche per questo, hanno una seconda finalità, soprattutto quando dispiegati in forma così intensa nelle ore e nei giorni successivi a quelli dell’insediamento: una funzione per così dire “performativa”. Sono cioè mezzi di teatralizzazione dell’azione di governo, la cui valenza simbolica è spesso assai più importante di quella sostanziale; servono a continuare a galvanizzare la propria base anche una volta terminato il ciclo elettorale, e a comunicare un’immagine di decisionismo ed efficienza spesso stridente con la loro effettiva capacità di produrre risultati sostanziali.

“Grandezza americana”

Questi elementi paiono essere particolarmente visibili in molti dei primi 44 ordini esecutivi di Trump. Alcuni sfiorano il grottesco, come quello – dal roboante titolo “Ripristinare i nomi che onorano la grandezza americana” – che rinomina in “Golfo d’America” il Golfo del Messico.

Altri – come la fine dello ius soli prevista dall’ordine “Proteggere il significato e il valore della cittadinanza americana” – hanno avuto vita brevissima, immediatamente bloccati dalle corti per la loro patente incostituzionalità.

Altri ancora, come per l’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, si collocano nel solco del consolidato anti internazionalismo della destra statunitense (su questo l’antesignano fu l’uscita dall’Unesco dell’amministrazione Reagan nel 1983).

Lessico grossolano

Questa valenza precipuamente simbolica si evidenzia e sostanzia nel lessico utilizzato in molti di questi decreti presidenziali e in altre iniziative dell’esecutivo. Un lessico tanto puerile e grossolano nella forma quanto spesso radicale ed estremo nella sostanza. Che denuncia, ad esempio, «l'equità marxista, il transgenderismo e le politiche di ingegneria sociale del green new deal» nello slogan utilizzato nel controverso memorandum dell’agenzia responsabile per il bilancio (l’Office of Management and Budget) che congelava tutta una serie di trasferimenti di spese federali ed è stato anch’esso subito bloccato da un giudice. O promette, in un’altra direttiva presidenziale, di tornare a utilizzare la prigione di Guantanamo per trasferirvi «i peggiori stranieri illegali criminali che minacciano il popolo americano».

Guantanamo è a tutti gli effetti uno dei simboli più oscuri di quella notte della ragione che ispirò tante delle politiche securitarie statunitensi successive agli attentati dell’11 settembre. L’incarnazione di uno stato di eccezione dove si sospendevano le convenzioni internazionali, si arrestava arbitrariamente e si torturava impunemente.

Trump non lo evoca a caso. Perché uno dei tratti che unisce molti di questi provvedimenti esecutivi è proprio il loro lessico violento: il loro ostentare crudeltà contro i nemici interni ed esterni dell’America trumpiana. Questa crudeltà è un tratto distintivo del linguaggio di Trump, basato sulla sistematica irrisione, offesa e aggressione verbale di chiunque vi si opponga. Un linguaggio, questo, spesso presentato come legittima risposta agli eccessi del politicamente corretto, e che finisce per giustificare l’imitazione ridicolizzante del giornalista disabile o i frequenti commenti sessisti sulle avversarie politiche, da Nancy Pelosi alla rivale delle primarie repubblicane, Nikki Haley.

Le matrici del successo politico di Trump sono plurime, ci mancherebbe, e vi sono ovviamente anche i tanti errori commessi dai suoi avversari. Ma tra queste non si può minimizzare la crescente infatuazione o assuefazione di un pezzo d’America incattivita, spaventata e vieppiù indifferente all’imbarbarimento del lessico politico per una violenza e una crudeltà a cui Trump dà da tempo voce e, con molti suoi ordini esecutivi, presunta sostanza politica.

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