L’Ue in trappola: si liberi dai fossili e dai ricatti degli autocrati

Le notizie di questi giorni sulla drammatica difficoltà di arrivare ad un cessate il fuoco tra aggressore Russia e aggredito Ucraina, in particolare dopo il dietrofront sul summit a Budapest e lo storico bilaterale tra Trump e Xi Jinping, rendono manifesta la difficoltà dell’Unione europea di trovare una qualche forma di presenza, se non di protagonismo, nelle sedi che stanno ridefinendo gli equilibri geopolitici internazionali. Da una parte siamo in presenza di un indebolimento sistematico del multilateralismo; dall’altra assistiamo a un autolesionistico e antistorico tentativo di indebolire le istituzioni europee da parte dei governi sovranisti. Il rischio di restare a guardare, mentre i nuovi potenti ci guardano al più come un mercato molto interessante, ben lungi dall’essere un interlocutore paritario, è elevatissimo. E lo è anche per la scarsa incisività che l’Ue riesce a mettere in campo, a causa dell’assenza di autonomia strategica dalla quale è afflitta, a partire dal tema dell’approvvigionamento energetico. A quasi 4 anni dall’inizio dell’aggressione, siamo al pacchetto di sanzioni numero 19 contro la Russia, eppure la fragilità strutturale dell’azione europea si misura facilmente con due numeri: nel 2024 i paesi membri hanno speso 19 miliardi di euro per supportare l’Ucraina, mentre acquistavano gas e petrolio dall’aggressore per 21 miliardi. Rinnovabili, nucleare e gas: benvenuti nell’era dell’elettricità. Ma il rischio è che aumenti il bisogno di petrolio E no, sostituire gas russo con gas americano, non è una buona idea, sia per i costi, sia per la combinazione micidiale con i dazi. E non lo è nemmeno continuare ad essere ricattabili da paesi in cui lo stato di diritto è reso carta straccia, come Libia, Egitto, Algeria, Azerbaijan e come Israele. Israele mira a esercitare ed espandere il proprio controllo attraverso le forniture di gas, significativamente incrementabili a seguito del tentativo di gestione solitaria dei giacimenti da tempo individuati al di là della striscia di Gaza (il Gaza Marine ad esempio, che si trova in acque riconosciute come palestinesi dalle Nazioni Unite). È di ottobre del 2023, a poche settimane dai tragici avvenimenti del 7 ottobre e dal successivo inizio della violentissima rappresaglia che si è poi trasformata in genocidio, l’assegnazione illegale da parte del governo di Israele di licenze di esplorazione a diverse compagnie, tra cui l’Italiana Eni (vicenda che è oggetto di una interrogazione a mia prima firma alla Commissione europea, e di analoga iniziativa alla Camera firmata da Laura Boldrini, Arturo Scotto et al). Chissà cosa ne sarebbe di quella concessione se i governi più reticenti, tra cui quello italiano, si convincessero della necessità di riconoscere lo Stato di Palestina, come ora chiede anche una risoluzione del Parlamento europeo. Se non bastassero i prezzi del gas (e le speculazioni a contorno) a far capire che la decarbonizzazione è la sola strada sensata che può percorrere la Ue per la propria competitività, considerazioni come queste dovrebbero far comprendere quanto liberarsi dalla dipendenza dalle fonti fossili sia necessario non solo ad abbassare i prezzi dell’energia per famiglie e imprese, ma soprattutto per smettere di essere ricattabili da governi inaffidabili, nonché complici di inaccettabili nefandezze, delle quali facciamo poi finta di preoccuparci. La sfida dell’adattamento, il successo della Cop30 dipende anche da questo In questa chiave, appare ancora più incomprensibile che un paese come l’Italia, che continua a infrangere record negativi di decrescita industriale, pagando bollette tra le più alte in Europa, continui a cincischiare e guardare al passato, invece di mettersi in scia del modello spagnolo, che ha prima protetto la propria economia e la cittadinanza dalle speculazioni e poi rilanciato l’industria a suon di prezzi concorrenziali dell’energia elettrica, disaccoppiandoli di fatto da quelli del gas, grazie alla penetrazione massiccia delle rinnovabili nel mix di produzione e allo sviluppo dei contratti poliennali bilaterali di power purchase agreement, che si basano sui bassi prezzi reali di generazione, sganciandosi dalla volatilità e dalle speculazioni dei mercati gas. A proposito di governi che (non) si occupano di difendere la propria economia dalle speculazioni: che fine ha fatto la seconda parte del rapporto ARERA che avrebbe dovuto indagare i mercati di dispacciamento e bilanciamento per arrivare finalmente a comprendere le reali condotte degli operatori su tutti i mercati dell’energia, dalle quali dipende la formazione del nostro prezzo unico nazionale dell’elettricità (il più alto tra i paesi fondatori dell’Ue), che pare affetto da manovre poco chiare che denunciamo da ormai più di due anni, totalmente inascoltati?