L’immenso dolore dell’essere ebrei al tempo di Gaza

Il 7 ottobre 2023, data della strage perpetrata da Hamas nel sud di Israele, ha costituito una ferita profonda nella coscienza non solo israeliana, ma ebraica. Si è parlato della più sanguinosa strage di ebrei dalla Seconda guerra mondiale, circa 1.200 vittime in un giorno. Ma che cosa rappresenta per la coscienza ebraica - non solo per quella israeliana - la successiva risposta politica e militare dello Stato di Israele ai danni dei palestinesi? Questa risposta, o ritorsione, dura ormai da quasi due anni, ha causato decine di migliaia di vittime tra i palestinesi (e centinaia di israeliani, soprattutto soldati), la distruzione di centri abitati e infrastrutture nella Striscia di Gaza, la fame indotta degli abitanti della Striscia, mentre è in corso una nuova, sanguinosa occupazione, che include lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi. Nel frattempo, i vertici dello Stato ebraico (assieme ai massimi dirigenti di Hamas, poi uccisi) sono sotto processo presso i Tribunali internazionali dell'Aja, per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e - nel caso degli israeliani - genocidio. Hedges: «Per colpa di Netanyahu, Hamas è idolatrata. La barbarie di Israele? È la nostra» Su tutto questo si interroga ora Peter Beinart, editorialista del New York Times e docente universitario presso la Scuola di giornalismo di Cuny, nel suo lacerante libro Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza (tradotto da Baldini+Castoldi). Uno dei motivi di interesse di questa riflessione deriva dal percorso biografico ed intellettuale dell'autore: di ebreo osservante la tradizione religiosa, nato in Usa ma cresciuto nel Sudafrica dell'apartheid, profondo conoscitore di Israele, che ha però gradualmente messo in discussione il proprio acritico attaccamento e la difesa incondizionata di dello Stato ebraico. Beinart pone innanzitutto la questione delle narrazioni israeliane - e ebraiche diasporiche - del 7 ottobre e poi della guerra a Gaza, sottolineando la centralità di una impostazione vittimaria e vittimistica nelle descrizioni e giustificazioni: sia (comprensibilmente) di quelle del 7 ottobre, che - paradossalmente - della distruzione ancora in corso a Gaza, dove il vittimismo serve da supposta giustificazione morale. Si tratta di una struttura narrativa ricorrente, che fa parte della cosiddetta "storia lacrimosa" ebraica, un racconto - da tempo messo in discussione dai più autorevoli storici ebrei - delle vicende comunitarie strutturate attorno alle secolari persecuzioni fino alla Shoah. Ma Beinart non esita ad analizzare la condizione di apartheid in cui si trovano, sempre più dal 1967, centinaia di migliaia palestinesi a causa della occupazione israeliana della Cisgiordania. Illustra le gravi conseguenze che derivano dall'autodefinizione di Israele come “Stato ebraico” nella legge fondamentale del 2018, con evidenti implicazioni suprematiste per la maggioranza ebraica in Palestina. Mette tra l’altro in luce il paradosso per cui lo slogan estremista che ricorre nelle manifestazioni pro-Gaza «dal fiume al mare» (che di fatto allude se non invoca la cancellazione di Israele), si trovi - con significato contrario - non solo nelle dichiarazioni dell'attuale leadership israeliana, ma in forma letterale nella carta costitutiva del Likud (il partito di Netanyahu), dove si legge: «Tra il mare e il Giordano esisterà solo la sovranità di Israele». Israele e il boom dell’emigrazione: in 80mila lasciano lo Stato ebraico A partire dall'esperienza americana, che vede ora la drammatica offensiva dell'amministrazione Trump contro le principali università da Harvard all'Università della California - di repressione della libertà accademica sulla base di una millantata azione contro l'antisemitismo - Beinart analizza la storia e le ambiguità dell'espressione "nuovo antisemitismo". Qui insiste anche sulla prevalente matrice di destra dell'antisemitismo e distingue le legittime critiche politiche a Israele dall'odio antiebraico, che pure egli riconosce essere riemerso nel discorso pubblico mondiale in connessione con la tragedia di Gaza. Questo insieme di questioni, unite a pagine dolenti sulle violenze del 7 ottobre e al recupero di aspetti della riflessione critica di intellettuali ebrei come Hannah Arendt, ma anche il rabbino Abraham J. Heschel in America e il filosofo religioso Yeshayahu Leibowitz in Israele, ci inducono - nelle parole di Beinart - a continuare a meditare sulla «incontrollata crudeltà» e l’«intollerabile dolore» che fanno della distruzione di Gaza un «simbolo della nostra epoca». E a soffermarci su uno dei più dolorosi moniti che l’autore rivolge al mondo ebraico a partire da Gaza: «Il problema con la storia della nostra comunità non sta nel riconoscere i crimini che abbiamo patito. Il problema è che ignora i crimini che commettiamo», che stiamo commettendo.