Facendo propria una celebre metafora, il Financial Times ha invitato gli investitori a turarsi il naso e votare alla prossima assemblea di Generali per la lista del consiglio di amministrazione, con Philippe Donnet attuale amministratore delegato. Ma, comunque vada, possiamo essere certi che non sia un bello spettacolo.

La cordata Caltagiorne-Del Vecchio vuole scalzare Donnet, appoggiato da Mediobanca, e ne critica la gestione, al di sotto delle potenzialità della società, definendo Generali “un leone addormentato” (riferendosi al leone di San Marco nel logo societario).

Il leone addormentato

Una critica condivisibile stando al rapporto tra il valore di borsa e il patrimonio, indicatore di come il mercato valuta le potenzialità di crescita: 0,9 per Generali, rispetto alla media di 1,4 di Allianz, Axa e Zurich, solitamente prese a riferimento.

Ma anche in base al rendimento sul capitale: 9,8 per cento contro 11,8 delle tre concorrenti (tutti i dati sono stime di consenso per il 2022, fonte Factset).

La valutazione di borsa di Generali, inferiore alle principali concorrenti, è dunque causata della minore redditività prospettica. Ma la ricetta della cordata alternativa a Donnet/Mediobanca - acquisizioni, taglio dei costi e cambio di governance – è altrettanto criticabile.

Lo confermano anche le reazioni degli analisti: mentre la media delle raccomandazioni a comprare per le tre maggiori assicurazioni è salita nell’ultimo anno dal 65 al 75 per cento, quelle di Generali sono crollate dal 57 per cento al 21.

È evidente che nessuno si aspetta che la disfida per il controllo di Generali porti un netto miglioramento alle prospettive della società. Come suggerisce il Financial Times, la scelta è tra il minore dei mali.

Di chi è la colpa

I costi non sembrano essere il problema: il combined ratio, che misura il rapporto tra tutti costi del ramo danni (danni pagati + spese gestionali) e i premi incassati a 91,7 è infatti inferiore al 93 medio dei tre maggiori concorrenti.

La principale ragione della redditività e crescita insufficiente sembrerebbe il mix sbagliato di prodotti: Generali è ancora troppo focalizzata sulle polizze vita che hanno una redditività inferiore a quelle del ramo danni (nelle polizze vita il differenziale tra il rendimento degli investimenti a reddito fisso e quello retrocesso agli assicurati si è andato chiudendo, e lo sarà ancora di più con un aumento dell’inflazione); né le permette di avvantaggiarsi della crescente domanda di protezione contro i rischi di varia natura che in Europa è ancora di molto inferiore agli Usa.

Così il ramo vita rappresenta il 69 per cento dei premi raccolti di Generali (ma solo il 52 del suo risultato operativo) contro il 23 di Zurich, il 33 di Axa e il 54 di Allianz, la quale però genera un quarto del suo risultato operativo con l’asset management. Un problema che non sembra una priorità per nessuna delle due cordate.

Connesso alla focalizzazione sul ramo vita c’è anche l’ampio portafoglio di titoli di stato italiani che espone Generali al rischio del nostro debito pubblico: una criticità in più per il titolo, rispetto ai concorrenti.

Non bastano le acquisizioni

24/10/2017 Mogliano, Visita del presidente del Consiglio alla sede delle Assicurazioni Generali. Nella foto Philippe Donnet CEO di Generali Italia

La cordata anti Donnet/Mediobanca punta molto sulle acquisizioni, che di per sé non creano valore; anzi, se la voglia di grandezza fa trascurare il prezzo pagato per la crescita, lo distrugge.

E non è chiaro quale sia esattamente la strategia che si voglia seguire e soprattutto quali sono gli obiettivi che si vorrebbe acquisire.

Generali inoltre non ha struttura finanziaria adeguata per una campagna di acquisti: la sua leva complessiva molto superiore a quella delle tre concorrenti (il suo rapporto fra totale delle attività e patrimonio è 20, contro una media di 11,7 delle tre) limita il ricorso al debito; e i multipli inferiori ai concorrenti a cui la borsa valuta Generali riduce la possibilità di fare acquisti in cambio di azioni, anche ammettendo (benché improbabile) che i gruppi che si contendono il controllo siano disposti a diluirsi.

La cordata Caltagirone-Del Vecchio vuole un cambio di governance per evitare che Mediobanca abusi dei benefici privati del controllo, come nelle operazioni con parti correlate, per esempio a proposito della trattativa per l’acquisto di Banca Generali.

Non c’è però alcuna garanzia che la nuova cordata non ne abusi a propria volta: dubbio legittimo considerato i notevoli interessi immobiliari del duo Caltagirone-Del Vecchio e il vasto portafoglio di immobili della compagnia assicurativa.

La verità è che la contesa appare come il tentativo di un gruppo di sostituirsi a una altro per esercitare il controllo, con i relativi benefici, con il minimo del capitale.

Di qui l’uso di derivati da entrambe le parti, senza quindi avere la proprietà finale dei titoli, per aumentare i propri voti in assemblea. Una pratica spesso utilizzata sul presupposto che il diritto di un azionista di cedere a un terzo il voto in assemblea è lasciato alla libera contrattazione tra le parti.

I derivati sono utili in una contesa per il controllo, ma mal si addicono a un investitore che vuole essere il socio stabile di riferimento.

Quanto alla legittimità della pratica è interessante notare che proprio in questo momento è in discussione negli Stati Uniti l’obbligo di rendere di pubblico dominio il beneficiario di un diritto di voto che viene trasferito tramite un derivato, un obbligo che da noi esiste già. Pertanto, l’uso dei derivati nelle contese societarie, purché trasparente, non è di per sé un problema.

Governance familiare

Se poi qualcuno avesse dubbi su cosa significhi per Caltagirone una buona governance, basterebbe leggera la sua intervista al Sole-24 Ore (25 marzo 2022) dove alla domanda, molto opportuna, se riteneva che lui e Del Vecchio avessero ancora l’età per impegnarsi risponde: «I miei tre figli saranno validi successori con una lunga esperienza maturata nella gestione».

Siamo all’imprenditoria dinastica che forse andrà bene per la piccola manifattura ma non certo per una multinazionale quotata a capitale diffuso.

Menzione finale per Luciano Cirinnà, l’aspirante alla carica di amministratore delegato al posto di Donnet, ma anche dirigente di Generali e per questo licenziato. Cirinnà ritiene il licenziamento ingiusto e minaccia azioni legali: che uno aspiri a essere il top manager di una grande società è legittimo; che lo voglia fare mantenendo comunque la garanzia del posto di lavoro francamente fa sorridere.

Non so chi vincerà la contesa in assemblea. E non vedo l’utilità nel dare consigli per il voto: darei per scontato che chi compra le azioni, specie se investitori istituzionali, conosca la società e sappia cosa sia meglio per il suo investimento. Ma credo che il sentimento prevalente sul mercato sia l’indifferenza: chi fosse interessato a investire in azioni di una assicurazione può infatti scegliere comunque tra una gran numero di titoli in giro per il mondo, e se rinuncia a Generali, non perde un grande opportunità di profitto, viste le aspettative.

Chi poi crede che il benessere del Paese dipenda in qualche modo dal risultato dell’assemblea di Generali, è ora che si ricreda.

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