Questa mattina, lunedì, accusa e difesa leggeranno le argomentazioni finali, poi i dodici giurati saranno “sequestrati” fino a quando usciranno con un verdetto (guilty / not guilty), per ottenere il quale occorre l’unanimità. Si prevede che i 12, una tavolozza di donne e uomini, bianchi e neri, una nonna e un ragazzo di vent’anni, discuteranno per almeno due giorni.

Termina così il processo per il più grande trauma collettivo dell’America, quel ginocchio del poliziotto Derek Chauvin pressato sul collo di George Floyd per 9 minuti e 15 secondi, il 25 maggio 2020, su un anonimo asfalto di Minneapolis;  l’agonia di un uomo ripresa da pochi metri di distanza con la videocamera del cellulare della diciottenne Darnella Frazier, cui non è mai tremato il polso, ma che da allora vive con il senso di colpa «per non aver potuto fare qualcosa per salvare quell’uomo che avrebbe potuto essere mio padre, mio fratello, mio zio».

La morte di George Floyd resterà nella memoria collettiva di un continente per il carico, certe volte intollerabile, di simbolismi e di antiche ingiustizie.

C’era molta cristologia in quelle invocazioni del morente, nella faccia senza espressione del centurione, e nella sua mano in tasca; e infatti ora molte delle pitture murali mostrano un Floyd con una corona di spine.

C’era la storia corporale del razzismo americano, in quel ginocchio che premeva. E c’era però anche un giudizio già scritto nella concordanza totale – una specie di Occhio di Dio tecnologico - che ha sincronizzato i cellulari dei passanti, le videocamere agli angoli delle strade, le body cam dei poliziotti. Il procuratore non ha avuto bisogno d’altro; si è rivolto ai giurati e ha semplicemente consigliato: «Potete credere ai vostri occhi: è omicidio».

Non ci sono stati grossi colpi di scena nel processo, se non che, per la prima volta, i colleghi e i superiori nella polizia hanno stigmatizzato come inaccettabile il comportamento di Chauvin; lui, peraltro, si è rifiutato di testimoniare in base al famoso “quinto emendamento”, cosa che non fa mai una buona impressione.

Il suo difensore ha presentato alcuni medici legali che hanno sostenuto che la morte non sia avvenuta per asfissia, ma per un complesso di cause: un cuore malato, una tossicodipendenza da oppiodi, una malattia delle coronarie, giungendo a fare previsioni su quanto poco sarebbe durata la vita di Floyd, anche senza il ginocchio di Chauvin. Il procuratore lo ha interrotto: «Lei chiederebbe alla signora Lincoln quanto sarebbe vissuto suo marito senza il colpo di pistola di Booth?». Il giudice Cahill ha respinto la domanda.

Fuori, intanto, va sempre peggio, tra protese, ansia e disperazione. Dal 29 marzo, inizio del processo, 64 cittadini americani sono stati uccisi dalle forze dell’ordine, più del 50 per cento neri o latini. Fanno tre morti al giorno.

L’ultimo è stato il bambino tredicenne Adam Toledo con le mani alzate, che nei pochi secondi prima della sua fucilazione, non si è reso conto di stare ripetendo il famoso quadro di Goya.

La parola ai giurati. Sarebbe bello se votassero all’unanimità per la resurrezione di George Floyd.

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