Che Giorgia Meloni sia in questa fase l’astro in ascesa nel firmamento politico italiano, nessuno può metterlo in dubbio. Lo dimostrano la costante crescita dei consensi elettorali per il suo partito, ben visibile nella recente tornata regionale, l’attenzione della stampa di molti paesi, la recente nomina a presidente del partito dei Conservatori e riformisti europei e, last but not least, i frequenti attestati di stima che le vengono rivolti da ambienti esterni (e talora ostili) al centrodestra.

Preso atto della situazione, alcuni commentatori hanno iniziato a pronosticarle un futuro ancor più brillante, da leader della sua coalizione, a cui la destinerebbero il ruolo di cerniera che Fratelli d’Italia è chiamata a svolgere tra la componente populista salviniana e quella liberal-moderata incarnata da ciò che rimane di Forza Italia e Udc.

Lo scenario è plausibile, ma non così scontato come a taluni sembra. E i motivi per usare cautela nelle previsioni sono numerosi.

In primo luogo, c’è da fare una tara alle non poche sponsorizzazioni esterne che la presidente di FdI sta ricevendo da qualche tempo, soprattutto (ma non solo) in ambito mediatico. Molte di esse provengono da soggetti che non hanno mai apprezzato l’ipotesi di un ritorno del centrodestra al governo.

È probabile che nelle loro strizzate d’occhio (come in quelle rivolte a Luca Zaia) ci sia solo il desiderio di nuocere al riottoso Salvini e di acuire le frizioni interne all’area a cui non vanno i loro favori. E che, una volta raggiunto lo scopo, agli accreditamenti interessati siano destinate a seguire le stesse accuse di estremismo oggi riservate al capo leghista.

Una seconda incognita riguarda la capacità della leader di continuare a camminare senza scivoloni sullo stretto crinale su cui – da buona erede della tradizione della sua parte politica, dal Msi ad Alleanza nazionale – fin qui ha guidato FdI, quel sentiero un po’ ambiguo che separa il conservatorismo, con le sue propensioni alla moderazione, dalla gestione radicale di temi politicamente scorretti, a partire dal contrasto all’immigrazione.

Finché era marginale e pressoché ininfluente, il partito che conserva nel suo simbolo la fiamma tricolore si è potuto permettere ampie incursioni in questo secondo campo, soprattutto da quando si è accorto che la miscela sovranismo/populismo, condita di accenti aspri e forti richiami emotivi, elettoralmente pagava.

Ora che l’ipotesi di doversi trasformare in tempi non lunghi in forza di governo si è fatta concreta, è probabile che le sirene del moderatismo si faranno rumorosamente sentire e la rinuncia ai toni gridati sarà obbligata.

Specialmente adesso che Giorgia Meloni ha, almeno formalmente, il compito di guidare anche un partito transnazionale che comprende, sì, qualche soggetto in odore di estrema destra come Vox o i Democratici di Svezia, ma come asse portante ha i conservatori britannici e vanta l’ufficiale sostegno dei Repubblicani statunitensi e del Likud, che difficilmente avallerebbero una linea troppo radicale. Senza la quale, però, FdI rischierebbe di restituire a stretto giro di posta alla Lega i suffragi che le ha provvisoriamente sottratto.

Un terzo ostacolo alla conquista della leadership di coalizione deriva dal fatto che, per ottenerla, FdI dovrebbe sorpassare elettoralmente i concorrenti interni. Le vie per riuscirci sono due: portare a compimento l’annessione del 5-6 per cento di residui votanti moderati oppure raccogliere nuovi consensi al di fuori dell’attuale perimetro dell’area di destra.

Non sono obiettivi facili, perché se da un lato i pourparlers fra Giovanni Toti e Mara Carfagna sembrano prefigurare un argine all’auspicata espansione, dall’altro il richiamo ad un profilo conservatore, in cui anche i tratti sovranisti sono destinati ad attenuarsi, allontanerebbe ulteriormente la possibilità di attirare quei settori trasversali, ormai estranei alla vecchia dialettica sinistra-destra, che avevano fatto la fortuna del Salvini ministro degli Interni, regalandogli l’inatteso 34,3 per cento.

Già questi sono solidi motivi per interrogarsi sulla consistenza dell’odierna irresistibile ascesa di Giorgia Meloni. Ma ce n’è un altro forse ancor più pesante: la difficoltà di dare un assetto organizzativo stabile e territorialmente omogeneo al partito, di formare quadri intermedi all’altezza dei nuovi compiti derivanti dalla gestione amministrativa di città e regioni e di amalgamare, coordinare e controllare, specialmente al Sud, il ceto politico proveniente da Forza Italia e di recente salito sul carro della possibile vincitrice. Su queste sfide si misurerà la qualità della leadership di FdI.

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