Il 21 marzo è la Giornata della memoria e dell’impegno per il ricordo delle vittime delle mafie. Quest’anno la manifestazione attraverserà Milano e, come sempre, verranno letti i nomi delle oltre mille persone uccise dalle cosche del paese. Sud, nord, centro, ogni area d’Italia è coinvolta e ha pianto per donne, bambini e uomini trucidati dai sicari dei padrini. La prima manifestazione risale al 1996, organizzata da Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti.

Il 21 marzo 2023 ha però una particolarità, non solo perché coincide con i 30 anni delle stragi continentali realizzate dalla mafia siciliana dopo le bombe del 1992 piazzate, su ordine di Totò Riina, per uccidere i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La peculiarità di questa edizione è che cade nell’anno dell’arresto di Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di latitanza. Il racconto giornalistico della fine della sua carriera criminale è istruttivo per capire quanta strada va ancora percorsa per ribaltare l’immaginario delle mafie.

Ha prevalso, infatti, una narrazione incentrata sul boss e sul suo stile di vita: le donne, le amanti, il viagra, le letture del padrino. Gossip criminale. Meno attenzione è stata dedicata alle protezioni altolocate e alle storie dei familiari delle vittime, che sono i manifesti eterni del metodo mafioso, delle tracotanza, della prepotenza e dell’arroganza di chi si sente istituzione sui territori, più del sindaco e del ministro, più del prefetto e del questore.

La questione è rilevante perché vuol dire che migliaia di storie sono relegate nell’oblio. Solo alcune volte vengono riprese e usate durante le passerelle di chi è al potere con una retorica abusata e vuota. L’antimafia sta vivendo un periodo difficile. Si è affermata negli ultimi dieci anni l’idea, anche nelle redazioni, che il problema siano le leggi contro le mafie e non la mafia stessa. Fa male a chi piange ancora i propri morti, il più delle volte sono famiglie che attendono ancora giustizia. Nell’80 per cento dei casi, infatti, gli omicidi compiuti dalle cosche sono irrisolti. Chi amministra la giustizia dovrebbe innanzitutto riflettere su questo dato. Sui troppi casi mai chiusi e le verità negate ai parenti delle vittime.

Uno strappo profondo

Il vuoto lasciato attorno ai familiari ha contribuito a far crescere la sfiducia delle comunità nei confronti delle istituzioni, locali e nazionali. Come fidarsi di un’autorità che ha alzato bandiera bianca di fronte alle ingiustizie subite da un sistema che si è fatto in alcuni casi stato, è la domanda che molti familiari si pongono. Per ricucire questo strappo profondo non bastano slogan e annunci spot. È necessario concentrare gli sforzi per riprendere in mano vecchie storie mai risolte. Alcune procure in Calabria lo hanno già fatto, provando a sanare dimenticanze accumulate tra gli anni Ottanta e Novanta. Due decenni in cui in Italia si è combattuta una guerra che ha mietuto migliaia di vittime nel silenzio generale.

I familiari non chiedono vendetta e non solo giustizia. Per loro è prioritario conoscere la verità. Sapere cioè chi ha decretato la morte dei loro cari. La verità serve a chiudere un capitolo doloroso della vita, non a dimenticare. Aiuta a riconciliarsi con i territori e le comunità. Pensate a quanto dolore provano quei figli che vivono con l’amara consapevolezza che nel loro paese possano incontrare, senza saperlo, i killer dei genitori. Quante volte magari li hanno sfiorati a un bancone del bar, o per caso sono entrati nei loro negozi con il paradosso di aver dato loro pure dei soldi per la spesa fatta. La verità, dunque, più delle giustizia in sé, è l’unico scopo di combatte per chi non c’è più.

Il clima politico del paese rispetto alla lotta alle mafie è sicuramente mutato. Al governo c’è una coalizione che sul tema non ha grandi idee e neppure una strategia. Non dimentichiamo chi è e la storia di Silvio Berlusconi, da imprenditore e da presidente del Consiglio, con le leggi contro i pentiti e molto altro ancora. Anni in cui Giorgia Meloni studiava da leader nel governo del leader di Forza Italia e taceva sugli scandali e le collusioni tra clan e pezzi del governo.

Per combattere davvero il sistema mafioso non basta nel giorno della memoria professarsi ammiratori della storia di Paolo Borsellino o appiccicarsi sulla giacca qualche spilla con qualche icona dell’antimafia. Soprattutto se nei mesi precedenti il ministro della Giustizia di questo governo ha speso parole durissime contro quei magistrati, ma non solo, che vedono la mafia ovunque. Secondo Carlo Nordio, infatti, il fenomeno mafioso non è poi così radicato. Buon 21 marzo.

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