Marcire in galera, espressione logora del populismo giudiziario e abusata nei giorni scorsi sui social network, trasformati in una permanente piazza campo de’ Fiori ai tempi della Roma papalina, dove si eseguivano gran parte delle pene capitali. Deve marcire in galera Giovanni Brusca, il killer spietato di bambini, giudici, poliziotti, gente comune. Il boia che ha premuto il pulsante del telecomando usato per detonare il tritolo piazzato sotto l’autostrada all’altezza dello svincolo di Capaci. La strage che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Dopo 25 anni di carcere, invece, è uscito dal carcere, fine pena. «Solo dopo 25 anni con centinaia di omicidi confessati», si sono indignati politici di carriera e commentatori, soprattutto di area centrodestra, dunque liberal-conservatori. Ma anche una ampia fetta del Movimento 5 stelle ha scritto commenti che trasudavano vendetta, rabbia. Discorso a parte meritano i familiari delle vittime, il cui dolore va rispettato sempre e comunque, anche quando la sofferenza che si portano dentro per la perdita di un figlio, di una madre o di un padre non lascia margini a letture complesse dei fatti e dei fenomeni. Ogni persona reagisce in maniera differente, elabora diversamente. I percorsi di impegno e di denuncia possono prendere molte strade. Ogni familiare porta il peso della perdita seguendo un processo intimo, personale, che può sfociare in battaglie collettive. Comprendere e analizzare quando si è colmi di rabbia è uno sforzo sovrumano che non tutti riescono a fare.

Chi però ha la responsabilità di parlare a tutti questo sforzo dovrebbe farlo. I rappresentanti delle istituzioni, del parlamento per esempio. O quei commentatori che sui giornali e nelle televisioni aizzano alla vendetta e lasciano ai margini del dibattito la profondità del ragionamento. A loro vorrei parlare. A quei commentatori e parlamentari che hanno usato una storia di sangue e violenza, di dolore e isolamento dei sopravvissuti, per manipolare la realtà delle cose, dei fatti e della lotta alla mafia. Quando ho iniziato a fare il giornalista mi ero ripromesso di lasciare la mia storia fuori dal lavoro, nonostante in questi anni abbia lottato assieme alla mia famiglia per ottenere verità e giustizia (non vendetta).

Il sangue e la verità

Avevo 7 anni, e la sera del 23 ottobre 1989 mio padre, Giuseppe, è stato freddato durante il tragitto per tornare a casa. Ucciso a Locri, provincia di Reggio Calabria, a colpi di lupara, lui funzionario di banca, «integerrimo», scriveranno i poliziotti nei pochi atti utili a quell’inchiesta che la procura di Locri ha archiviato in un lampo. La sentenza è che non c’erano colpevoli, ignoti per tutta la vita, «suo cognato non aveva macchie e per questo è più difficile trovare i colpevoli», aveva detto a mia nonna uno degli investigatori applicato al caso. Non ho molti ricordi di mio padre, e questa è la ferita più difficile da rimarginare. L’omicidio è come se avesse scippato il tempo passato assieme. Sembra assurdo ma è stato così per me. Così nel regno della ‘ndrangheta, all’epoca spadroneggiava con i sequestri di persona, la giustizia non ci aveva degnato di uno sguardo e di una indagine decente, nonostante l’esecuzione di mio padre avesse tutte le caratteristiche dell’azione organizzata dai clan della zona. Il dolore ti resta per sempre incollato alla carne, anche se sei un bambino. Ma diventa anche una corazza, che ti protegge lungo il cammino futuro. Nello stesso periodo sono stati giustiziati dalla ‘ndrangheta altre decine di persone che nulla c’entravano con le cosche. Ne conoscevo molte e ancora oggi conosco i loro figli. Tutte senza giustizia. Omicidi senza colpevoli.

Cosa c’entra Brusca, il populismo giudiziario, il marcire in galere e i pentiti con la storia che ha segnato la mia vita, vi chiederete voi. C’entra per due motivi. Il primo: gli anni della strage silenziosa in Calabria erano gli stessi in cui il maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone, contro la mafia di Totò Riina e Giovanni Brusca, stava dando il colpo finale all’organizzazione che poi si vendicherà con lo stesso Falcone e con Paolo Borsellino, uccidendoli negli attentati di Capaci e via D’Amelio nel 1992. Secondo: se le leggi ispirate da Falcone, da quella sui pentiti all’organizzazione delle procure antimafia (le direzioni distrettuali antimafia) fossero esistite ai tempi dell’omicidio di mio padre forse avremmo ottenuto giustizia in molti.

Giustizia, non vendetta

Anche nella storia dell’omicidio di mio padre ritroviamo i pentiti. L’ultimo ha parlato nel 2013, è ritenuto un importante figura della ‘ndrangheta, descritta da esperti e investigatori come l’organizzazione più impenetrabile e meno colpita dal pentitismo. Per la prima volta fa nomi e cognomi di esecutori e mandanti. I primi erano già in carcere per altri reati, si trovavano al 41 bis, il carcere duro, perché ritenuti a capo delle cosche della Locride. Tra i killer indicati dal pentito anche uno dei più noti narcotrafficanti internazionali. Il mandante, invece, è libero, stando alla versione del collaboratore. Anche in questo caso la stessa procura che decise di archiviare 30 anni fa ha optato per la strada più facile, convinta che gli elementi forniti dal collaboratore di giustizia non fossero sufficienti. Seconda archiviazione, dunque.

Che cosa avrei dovuto fare? Invocare la pena di morte? Urlare che devono marcire in galera? Credo che sia la verità il fine del percorso e non il desiderio di vendetta. La giustizia è il mezzo per ottenerla, con il codice e la Costituzione, la prima tra le misure antimafia, a indicare la via da seguire. Agire all’interno della cornice dello stato di diritto perché in democrazia deve guidarci la razionalità, che ci pone su un piano di superiorità rispetto a chi uccide per mestiere, usa la protervia come mezzo per raggiungere il potere e la corruzione come strumento per imporsi nei mondi istituzionali. Combattere le mafie non può trasformarci in cacciatori senza regole, dobbiamo applicare le regole, persino, prima o poi, lasciarci alle spalle la perenne emergenzialità di certe misure. Le mafie si combattono prima di tutto sui territori con la prevenzione, assicurando servizi, lavoro, reddito, liberando dal ricatto povera gente e imprenditori strozzati dai debiti.

La lotta alla mafie è una questione molto seria, che gli slogan di alcuni leader reazionari e alcuni titoloni dei giorni scorsi hanno ridicolizzato. Sui social circolavano volantini, con le facce dei leader della destra, con scritto a caratteri cubitali “dalla parte delle vittime sempre” oppure “scarcerato Brusca dopo 25 anni, non è questa la giustizia che gli italiani meritano”. Stare dalla parte delle vittime presuppone però l’umiltà di stare un passo indietro, il sospetto piuttosto è che sia tornata la grande voglia di distruggere l’impianto del codice antimafia che si è formato a partire dal 1992 a oggi. Il governo Berlusconi si distinse per la guerra contro la legge sui pentiti, proprio quando il fedele collaboratore del leader di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, emergeva sempre di più come un concorrente esterno della mafia siciliana. Che rispetto c’è per le vittime dei poteri mafiosi se per tutta la carriera politica si è provato a bonificare il campo dagli strumenti necessari a combatterli? Che rispetto ci può essere per le vittime se chi rappresenta le istituzioni all’interno del parlamento passa il suo tempo a inveire sui social contro un macellaio qual è Brusca e si rintana nel silenzio quando nella rete dei padrini finiscono colletti bianchi, uomini di partito, imprenditori amici? La vendetta lasciamola ai mafiosi. La giustizia ai cittadini, che devono però accettare che possano esistere feroci criminali che aiutano i magistrati a ottenerla.

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