Chi deve appuntarsi al petto la medaglia di carnefice? Chi le ha creato il vuoto attorno mentre altri tacevano? Chi l’ha colpita e affondata? In Sicilia, in questi giorni, si contendono i brandelli di un simbolo della magistratura italiana.

La vittima di cui si parla non è una qualunque ma è la “zarina di Palermo”, la potentissima ex presidente delle misure di prevenzione del tribunale Silvana Saguto, radiata per avere gestito come un affare di famiglia i miliardari patrimoni di mafia messi sotto sequestro.

E allora chi, davvero, per primo le si è scagliato contro travolgendola? I magistrati o i giornalisti, il codice o il reportage, le indagini o lo sputtanamento televisivo?

La questione, e in verità con insolita intensità, è stata sollevata in un’aula di giustizia dalla procuratrice generale di Caltanissetta Lia Sava nella requisitoria del processo d’appello contro Saguto, in primo grado condannata a 8 anni e 6 mesi di reclusione.

Per una mezza dozzina di volte ha insistito sulla genesi dell’inchiesta della vergogna, ha citato date e luoghi, ha ripercorso le tappe delle investigazioni per smentire la primogenitura della scoperta dello scandalo attribuita alla stampa e in particolare a quel pittoresco personaggio che è il direttore di Telejato, Pino Maniaci. C’è tornata sopra con una perseveranza assai curiosa che non è passata inosservata. Perché tanta pervicacia?

L’inchiesta e gli scoop

Forse perché troppi sono i pretendenti a riconoscersi il merito di avere scoperchiato quel suq che era diventato il tribunale palermitano delle misure di prevenzione, o forse perché qualche disagio, in fondo in fondo, nei corridoi del tribunale di Caltanissetta c’è. Per sgombrare subito il campo dagli equivoci.

L’inchiesta giudiziaria su Saguto è robusta, condotta con estremo scrupolo da due sostituti procuratori e da un procuratore aggiunto. Ma è giusto anche ricordare che i servizi televisivi delle Iene e quelli dello stesso Maniaci sull’argomento coincidono temporalmente con l’inchiesta giudiziaria.

Di più. Ancora prima il “caso Saguto” l’aveva giornalisticamente indagato, in un documentato resoconto su Rai News24, il collega Pino Finocchiaro, che sul suo profilo Facebook ieri ha citato Sava dandole praticamente della smemorata.

Pino Maniaci che è Pino Maniaci, è andato oltre e già qualche tempo aveva dichiarato: «Sono stato io a denunciare tutto a Caltanissetta facendo nomi e cognomi...e leggo ora che dopo la mia denuncia le indagini sono cominciate subito». Ciascuno rivendica qualcosa prima degli altri.

Una danza sui resti di quella che era considerata, vista l’entità dei beni mafiosi che amministrava, «la più grande imprenditrice da Roma in giù». Ma perché la procuratrice generale Sava ha sentito il bisogno di infilarsi in questo ginepraio? Qualcuno ha ritenuto che sia stato solo il pretesto per parlare d’altro. E infatti d’altro ha parlato nella sua requisitoria.

Sentieri scivolosi

Ha detto: «Questo non è un processo all’antimafia o a una certa antimafia». E ancora: «L’antimafia non c’entra davvero nulla in questo processo, noi abbiamo cercato di fotografare condotte di reato poste in essere da soggetti che rivestivano incarichi di pubblici ufficiali».

Insomma, la procuratrice è apparsa molto interessata all’antimafia e alle sue vere o presunte fazioni, immaginiamo anche quelle che hanno imbarazzato non poco il palazzo di giustizia di Caltanissetta negli ultimi anni con l’affaire Montante, il vicepresidente di Confindustria condannato a quattordici anni con rito abbreviato per associazione a delinquere e dossieraggio.

Tant’è che proprio Sava, prima che il dibattimento d’appello iniziasse, avvalendosi dell’articolo 52 del codice di procedura penale che prevede l’astensione dal processo «quando esistono gravi ragioni di convenienza», ha deciso che nessuno – ma proprio nessuno – nella sua procura generale avrebbe potuto sostenere la pubblica accusa contro Montante. Così è arrivato qualcuno da un altro distretto giudiziario, Catania.

Quello contro Saguto e quello contro Montante non saranno processi contro un’antimafia o l’altra, ma semplici processi con fatti di reato da dimostrare. Ci rimane però la sensazione che le vicende Saguto e Montante la procuratrice generale di Caltanissetta non le abbia sufficientemente valutate nella loro pienezza e complessità. A partire da un dettaglio tutt’altro che irrilevante: quell’antimafia avvelenata era entrata nel cuore dei palazzi di giustizia siciliani, compreso il suo.

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