«Schegge di democrazia diretta inserite malamente, o opportunamente, in quella rappresentativa» scrisse una volta Claudio Pavone dei referendum. In effetti, con la democrazia rappresentativa il referendum si concilia male: evoca un concetto di intervento popolare che scavalca – o precede - ogni mediazione partitica e ogni collocazione parlamentare.

Nel 1946, affidare la scelta istituzionale, repubblica o monarchia, a un referendum anziché ad una assemblea costituente - come era stato inizialmente previsto -, aveva avuto una valenza «antipartitica», in quel caso diretta contro l’«esarchia» resistenziale dei Cln come ha spiegato uno studioso di queste faccende, Enzo Fimiani, non furono i partiti «popolari» a spingere affinché non si intraprendesse la via assembleare, bensì i monarchici: un plebiscito avrebbe rinnovato l'appoggio popolare alla monarchia, scavalcando così i partiti resistenziali, a grande maggioranza repubblicani. E quasi ci riuscirono.

In seguito, alla Costituente, l'istituto suscitò molte perplessità. Lelio Basso l'appoggiò convinto (il cittadino «non deve spogliarsi mai del suo abito mentale di cittadino-sovrano») ma Togliatti era decisamente contrario,  sostenendo i valori della «stabilità» e della «continuità» dello Stato repubblicano, evidentemente imperniato sulla centralità del «Parlamento dei partiti».

Temeva infatti che l'inserimento del referendum in Costituzione suggerisse una lettura si voglia «giacobina» o «bonapartista» della sovranità popolare, comunque foriera di possibili colpi di mano contro le decisioni del Parlamento (e dei partiti).

Alla fine, tra i vari tipi possibili di referendum - arbitrale o preventivo, ma anche di indirizzo, propositivo, confermativo e così via – fu approvato solo quello abrogativo.

Popolo contro parlamento

Strano balbettìo, a ben pensarci: dopo che il Parlamento eletto dal popolo ha legiferato, si chiede allo stesso popolo se vuole abrogare. Popolo contro Parlamento, democrazia diretta contro democrazia rappresentativa.

Non a caso si aspettò parecchio a disciplinarne l'esercizio, e lo si fece solo nel 1970; lo si fece dopo che era stata approvata la legge, di iniziativa socialista, che introduceva il divorzio. La Dc volle appellarsi al popolo per cancellarla, secondo la stessa logica dei monarchici del 1946: popolo contro partiti. Fallì, nel 1974 il popolo respinse l'abrogazione.

Ma fu un buon esercizio di democrazia, perché il referendum funziona per le grandi questioni etiche, o di principio, sulle quali il popolo ha un'idea chiara: divorzio, aborto, fine vita, parità di genere... 

Un altro terreno adatto all'istituto, all'opposto, è quello delle più «piccole» questioni: aprire una nuova strada, chiudere una scuola, vietare il traffico nel quartiere, anche in questi casi il popolo può essere il miglior giudice...

Questioni, in entrambi casi, non riguardanti le istituzioni, dove il ricorso al referendum costituisce palesemente un uso improprio della democrazia, vòlto a contrastare il normale procedimento legislativo quando il sistema parlamentare  non è in grado di produrre decisioni.

            E questa è proprio la storia dei tanti referendum svoltisi in Italia, il paese europeo che dopo la Svizzera ha fatto maggior ricorso dello strumento. E' una storia tutta racchiusa nella critica al sistema dei partiti, all’inerzia o alla sordità del parlamento.

Ritagliare pezzi di leggi

I primi protagonisti delle battaglie referendarie furono non a caso esponenti periferici del sistema politico – come Marco Pannella, o Mariotto Segni (ma ci fu anche un partito «Sì referendum»,  di ispirazione liberale, che agitando lo slogan «I partiti non possono cambiare nulla» si proponeva di istituire un sistema elettorale maggioritario, abolire alcuni ministeri ritenuti inutili, abrogare il finanziamento dei partiti, e così via).

Tutti costoro esprimevano, a volte in maniera virulenta, una polemica verso la classe dirigente, i partiti e la «partitocrazia». E poiché il referendum è solo abrogativo per legiferare erano possibili due strade, o cancellare del tutto una legge, lasciando però la materia scoperta, oppure – ed è la via più seguita - ritagliare pezzi di leggi per mutarne il significato.

Così avvenne con le leggi elettorali, e così infatti sono state avviate l'introduzione del sistema maggioritario, o l'abolizione delle preferenze e del finanziamento pubblico dei partiti.

            La Corte costituzionale, investita dalle successive raffiche di quesiti referendari, si è barcamenata a lungo, intanto sentenziando che «Il referendum abrogativo non può essere trasformato - insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa». Dopo di che ha imboccato varie strade: o non ammettendo i quesiti, e allora attirandosi virulente polemiche.

Marco Pannella l'accusò di avere «sequestrato» il potere referendario e di avere «fatto strage di legalità». In un caso, allorché la Corte dichiarò ammissibili sono 11 di trenta referendum, Pannella non esitò ad accusarla di tradimento e di voler instaurare un regime peggiore del fascismo (Sic, che paese!).

In altri casi, la Corte ha ammesso, attenendosi al principio generale secondo il quale una abrogazione è possibile solo se la normativa residua è immediatamente applicabile. Oppure ha respinto, ma invitando il Parlamento a deliberare, il che caparbiamente il Parlamento non ha fatto, come nel caso del fine vita.  

Entrare nel merito

Se poi il popolo così legifera, a colpi di abrogazioni, cosa ne consegue? What next?  Nel caso dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ad esempio, è diffusa convinzione che una eliminazione drastica, meramente vendicativa, non sia stata utile, e infatti la si è surrettiziamente mantenuta, con buona pace del prestigio dei partiti.

Rimane comunque il contrasto tra la spinta «plebiscitaria» insita nel referendum e la democrazia rappresentativa. Contro la quale si è mosso infatti la «disintermediazione», il «direttismo» dei movimenti populisti, che hanno brandito Rousseau come un brand di cioccolatini, ovviamente senza conoscere le idee del ginevrino, che sono ben poco schematiche.

Ma va detto che l'appello plebiscitario al voto popolare funziona male anche nel caso, previsto per legge, delle riforme costituzionali: non a caso furono Berlusconi, e poi Renzi a sollecitarlo: o con me o contro di me. Persero entrambi, e di alcune riforme, forse utili, non si poté parlare.

Infatti le loro riforme, contenenti una varietà di diversi istituti, dovevano però essere votate come corpo unico, yes or no, come le costituzioni napoleoniche, essendo impossibile votarle per titoli distinti, cosa che anche alcuni costituzionalisti avrebbero ritenuto opportuno. A noi popolo, insomma, non è consentito entrare nel merito, e poi, francamente, non sapremmo farlo.

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