Giustizia o libertà. Quegli ostacoli alla patrimoniale

La crisi del 2008 svelò il problema della disuguaglianza e lo impose alla discussione pubblica. Da allora l’idea di tassare di più i ricchi o i ricchissimi è affiorata spesso. Qui vorrei discutere una delle ragioni per le quali generalmente non se n’è fatto nulla. Di recente quell’idea ha preso contorni più precisi grazie al lavoro dell’economista Gabriel Zucman, ottimamente riassunto su Domani da Francesco Saraceno. L’obiettivo è limitato: raddrizzare quei sistemi impositivi – molti, inclusi quelli francese e italiano – che sono diventati regressivi; ossia quelli nei quali i più ricchi, grazie alle riforme del trentennio neoliberale, pagano meno della classe media in proporzione al reddito. E il rimedio proposto è far sì che l’imposizione complessiva annuale su chi abbia un patrimonio netto superiore alla soglia prescelta – un miliardo, Zucman ha suggerito al G20 – non sia inferiore al 2 per cento del patrimonio: quindi a chi pagasse imposte dirette per meno di quel 2 per cento si applicherebbe un’imposta aggiuntiva pari alla differenza. Gli argomenti di chi teme ricadute negative sulla crescita economica paiono deboli, e le sole obiezioni convincenti – il rischio di fuga e gli effetti sulle nuove imprese innovative – possono essere largamente accomodate. Eppure è forse solo a New York che l’idea di tassare di più i ricchi ha segnato un vero successo politico (era un pilastro del programma elettorale di Zohran Mamdani). Dalla Francia all’Italia Il caso della Francia è rivelatore. L’idea di Zucman è stata tradotta in un disegno di legge, che fissa una soglia di cento milioni di euro; secondo stime dei proponenti, la nuova imposta si applicherebbe a meno di duemila contribuenti e raccoglierebbe venti miliardi di euro (metà della manovra per il 2026); secondo i sondaggi, oltre tre francesi su quattro l’approvano; eppure il parlamento l’ha rigettata. In Italia destra e centristi sono egualmente contrari. Il Pd pare tiepido o incerto, abbastanza da meritarsi questa sferzata di Piero Ignazi: «Se la sinistra ha convinzione nelle proprie idee, e sono ancora ispirate all’idea di eguaglianza, deve abbattere il pensiero egemonico che vuole intoccabili i ricchi». Il primo e ovvio ostacolo a simili proposte sono gli interessi dei ricchissimi, e la loro influenza sui media (che spesso posseggono) e sui partiti (che spesso finanziano). Ma in democrazia raramente la nuda difesa di un interesse particolare ha successo, se non riesce a vestirsi di argomenti che invocano il bene comune: e ho appena detto che in questo caso l’operazione è difficile perché le obiezioni di merito sono deboli o superabili. Allora qual è l’ostacolo decisivo? Credo sia un ostacolo ideologico, fondato sul valore che le società occidentali tendono a considerare supremo: la libertà. Come si intende Il problema non è il rango che attribuiamo a quel valore, ma il modo in cui lo intendiamo. Perché la concezione dominante, che riceviamo dalla tradizione liberale, definisce la libertà come assenza di coercizione. Da ciò consegue – cito il più celebre teorico liberale della libertà, Isaiah Berlin – che «ogni legge è una violazione della libertà», perché ci impedisce di fare ciò che vogliamo. Ed è violazione anche ogni imposta, perché ci priva della facoltà di usare quei soldi come desideriamo. Liberale fasullo, Silvio Berlusconi fu quindi tuttavia pienamente coerente con la concezione liberale della libertà quando disse che tassare i cittadini equivale a «mettere le mani nelle loro tasche». E quella concezione è anche la radice, cosciente o inconsapevole, della «lunga sudditanza culturale» che – cito ancora Ignazi – ha condotto «tanti sciocchi esponenti di sinistra» a ripetere quelle dannosissime parole. Ecco dunque l’ostacolo, retorico e normativo: superare un’obiezione che sventola la bandiera della libertà è difficile. E l’ostacolo durerà finché durerà l’egemonia della concezione liberale di quel valore. Non è però scontato che essa duri a lungo, perché quella concezione ha difetti gravi: ignora le asimmetrie di potere, oggi diffuse e crescenti, ed è indifferente alla democrazia, oggi minacciata. Di questi difetti ho già scritto su Domani, per presentare un’alternativa più attraente: la concezione della libertà che dominò dall’antichità classica all’Ottocento, e si legge tanto in Marx e Machiavelli quanto in Locke e Adam Smith, secondo la quale essere liberi significa non avere padrone. Assunta questa concezione, e date le condizioni attuali, la battaglia per la giustizia fiscale è una battaglia di libertà.