Nel 2008 il dipartimento della Difesa americano ha speso 549 milioni di dollari per offrire all’aeronautica militare dell’Afghanistan aerei da trasporto G222, un modello che le forze armate americane avevano dismesso da 30 anni perché i componenti di ricambio erano diventati introvabili.

Tempo qualche anno e gli afghani sono giunti alla stessa conclusione, così nel 2014 hanno venduto quegli aerei come rottami incassando soltanto 40.257 dollari.

In questi giorni si è molto parlato della sconfitta militare degli Stati Uniti e della coalizione occidentale – secondo Cia e Pentagono gli attacchi da parte di nemici erano 372 nel 2002 e sono saliti a 40.535 nel 2020 – ma il vero disastro in Afghanistan è stato economico. La ricostruzione delle istituzioni è fallita e, di conseguenza, la ricostruzione economica si è rivelata una bolla.

Senza crescita

In this image provided by the U.S. Marine Corps, two children point at an aircraft after they have been manifested to leave, at Hamid Karzai International Airport, Kabul, Afghanistan, Saturday, Aug. 21, 2021. (1st Lt. Mark Andries/U.S. Marine Corps via AP) 210821-M-TT571-2355 HAMID KARZAI INTERNATIONAL AIRPORT, Afghanistan (August 21, 2021) Two children point at an aircraft after they have been manifested at Hamid Karzai International Airport, Aug. 21. U.S. service members are assisting the Department of State with a Non-Combatant Evacuation operation (NEO) in Afghanistan. (U.S. Marine Corps photo by 1stLt. Mark Andries)

«I capitali stranieri hanno amentato in modo artificiale la domanda, nel senso che non c’è stata alcuna crescita di produttività associata, si è trattato di un boom temporaneo di spesa che è svanito quando sono finiti i soldi internazionali», scrive su Twitter l’economista di Princeton Atif Mian.

L’analisi del lato economico della catastrofe afghana è rilevante anche perché uno degli argomenti che si sente più spesso dai critici, in questi giorni, è che se Stati Uniti e alleati avessero speso per infrastrutture, scuole e ospedali invece che per bombe, elicotteri e carri armati le cose sarebbero andate meglio. A guardare i dati, però, non sembra così semplice.

E’ vero che i soldi sono americani sono andati soprattutto alla guerra e non alla ricostruzione: 145 miliardi di dollari in vent’anni per far rinascere l’Afghanistan, 837 per combattere, con scarso successo, i Talebani. Ma l’analisi dell’impatto di quei 145 miliardi indica che sono stati spesi male.

Certo, inondare di soldi un paese che era il quarto più povero del mondo, qualche risultato positivo lo genera: oggi è passato da quarto a ottavo più povero, il tasso di alfabetizzazione tra i 15 e i 24 anni salito del 28 per cento tra i ragazzi e del 19 tra le ragazze, l’aspettativa di vita è salita da 55 a 65 anni. Ma l’intervento americano non ha posto le basi di una crescita economica che, secondo molte teorie, è la premessa o almeno una condizione facilitante della democrazia.

Il Sigar è lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstraction (Sigar), creato dal Conresso americano monitora con implacabile imparzialità come vengono spesi i soldi dei contribuenti. L’ultimo rapporto è un atto d’accusa lungo vent’anni.

In estrema sintesi: tra 2011 e 2011 i soldi riversati da Washington sull’Afghanistan crescono ogni anno, gli aiuti arrivano a superare il 100 per cento del Pil dell’Afghanistan nel 2010. «E’ come mettere molta acqua in un imbuto, se la versi troppo in fretta esce e finisce a terra: noi stiamo annaffiando il terreno», ha detto al Sigar un funzionario americano dell’agenzia UsAid.

Il problema è che gli americani hanno fretta, vogliono vedere rinascere il paese per giustificare il conto dei morti, visto che la missione originaria di vendicare l’Undici settembre e distruggere Al Quaida era considerata, a torto, completata.

E così prima George W. Bush e poi Barack Obama spendono, tanto e subito. Non si fidano dell’amministrazione locale, una delle più corrotte al mondo, e così si affidano soprattutto a contractor americani, cioè aziende private pagate dal governo americano per ricostruire le istituzioni di un paese straniero.

Non funziona: le statistiche mostrano un boom di importazioni, ma la situazione economica sottostante non si smuove, sale il reddito medio del 40 per cento (tra 2007 e 2017), ma è un aumento che nasconde l’arricchimento di pochi.

La quota di popolazione in povertà, nello stesso periodo, sale dal 34 al 55 per cento. I soldi vengono spesi male, secondo un rapporto del Sigar su 7,8 miliardi di investimenti in capitale fisico, inclusi edifici, strade, ponti, veicoli e aerei, ben 2,4 miliardi sono andati per asset che poi si sono rivelati inservibili o non utilizzabili come previsto: significa una percentuale di spreco del 31 per cento, e spesso dietro uno spreco c’è una mazzetta (a Kabul o a Washington).

Missione compiuta?

President Joe Biden stops to answer a reporters' question about Afghanistan evacuations in the Roosevelt Room of the White House, Sunday, Aug. 22, 2021, in Washington. (AP Photo/Manuel Balce Ceneta)

Nel 2011, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, il presidente Obama ha l’occasione di stabilire una qualche forma di spartiacque in una guerra di cui nessuno riesce più a capire la traiettoria e il senso. Cominciano le prime promesse di ritiro e, con esse, il taglio agli aiuti internazionali.

L’economia afghana si sgonfia come un pallone bucato: in Bosnia, dopo le guerre degli anni Novanta, la comunità internazionale aveva speso circa 4.4 miliardi di dollari per ricostruire il paese, con discreti risultati (ma il punto di partenza, in termini di capitale umano, era diverso). In Afghanistan non resta niente, se non i Talebani che ora riprendono un paese appena più sviluppato di quello che avevano guidato fino al 2001.

Il monito per l’Occidente è duplice. Primo: esportare la democrazia con le bombe non funziona, ma neppure con i fiumi di denaro. Il cosiddetto nation building, come la crescita economica, è un fenomeno endogeno, che si può favorire, sostenere, ma non imporre con tempi e ritmi dettati dall’esterno.

Secondo monito, questo generale e legato alle economie occidentali post-Covid: immettere enormi capitali in una economia dalle basi fragili non genera sviluppo ma soltanto sprechi e corruzione, mascherati da una fiammata effimera di benessere. Vale anche per l’Italia che pregusta i 200 miliardi del Recovery Plan europeo.

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