La crisi finanziaria negli Usa del 2008 e quella del debito pubblico nell’Eurozona del 2011 hanno generato una profonda e radicale riforma della regolamentazione bancaria Europea.

Sono stati così recepiti gli accordi internazionali Basilea III e costituite tre nuove istituzioni: il Single Supervisory Mechanism presso la Bce per la vigilanza unica, la European Banking Authority per la definizione delle regole prudenziali e la misura dei rischi, e il Single Resolution Board per la gestione delle crisi bancarie.

I requisiti

Le banche devono oggi soddisfare sei coefficienti di capitale (il Pillar 1, i buffer Capital conservation, Countercyclical e Systemic e i Pillar 2 Required e Guidance), detenere una quantità adeguata di risorse proprie in caso di dissesto (MREL) e di risorse liquide (LCR, il rapporto tra attività liquide e la stima dei depositi che verrebbero persi in 30 giornate di crisi), oltre a rispettare un numero crescente di norme e regolamenti.

Gli obiettivi della riforma erano ambiziosi: rendere il sistema bancario dell’Eurozona solido di fronte anche alla più grave delle crisi; evitare che l’erogazione del credito fosse pro-ciclica (aggravando le crisi economiche e viceversa); assicurare la risoluzione ordinata del dissesto di una banca senza interventi statali; e immunizzare il sistema bancario da eventuali crisi del debito pubblico. Poi è arrivato il Covid e in pochi mesi sono apparse crepe preoccupanti nel castello di regole e burocrazia.

Potrebbe sembrare che la nuova regolamentazione unica europea abbia raggiunto tutti gli obiettivi: dal 2015, anno della sua costituzione, a metà 2020 (ultimo dato disponibile) il coefficiente di capitalizzazione Tier1 (capitale e subordinati convertibili in rapporto agli attivi pesati per il rischio) delle banche è infatti cresciuto dal 13,4 al 16,1 per cento (il doppio del 2007, prima della crisi dei sub prime); l’indice di liquidità LCR da 137,6 a 145 percento; i crediti deteriorati diminuiti dal 7,5 al 2,9 per cento del totale; e la quantità di prestiti finanziati da depositi stabili della clientela cresciuta dal 79 al 90 per cento.

La nuova regolamentazione ha quindi reso le banche molto più solide, liquide e sicure? Non proprio, a giudicare dagli investitori che in Borsa attribuiscono un valore alle maggiori banche di poco inferiore alla metà del loro patrimonio netto, né si attendono valutazioni molto dissimili dalle attuali anche nei prossimi due anni. Segno che tante regole non sono servite a rendere le banche invulnerabili come si voleva.

L’errore sugli incentivi

Il difetto della regolamentazione sta negli incentivi sbagliati e nel non voler capire che patrimonializzazione e liquidità, senza redditività, non conducono alla stabilità.

L’aumento dei coefficienti patrimoniali dal 2015 è dovuto ad aumenti di capitale per 224 miliardi a fronte di un incremento delle attività esposte al rischio per 143. Ma nel periodo i prestiti sono aumentati di 1900 miliardi e di oltre 2500 i depositi della clientela.

Più che ad aumentare il capitale, quindi, la regolamentazione ha spinto le banche a ridurre il rischio degli attivi e raccogliere depositi che rendono poco o nulla.

Con due risultati perversi. Il primo è che più capitale e meno attivi rischiosi hanno comportato un crollo permanente della redditività, passata per le maggiori banche dal 20 per cento medio nel 2007, al 3,7 per cento nel 2020, e una stima inferiore al 6 per cento anche nel 2021 e 2022: insufficiente a remunerare adeguatamente gli azionisti.

Così, crollano le valutazioni in borsa e per le banche diventa difficile raccogliere i capitali che sarebbero necessari per le fusioni e acquisizioni, e per sostenere i maggiori rischi che il finanziamento della crescita oggi comporta.

Il secondo è che i coefficienti patrimoniali sono calcolati sull’attivo pesato per i rischi, un dato basato su valutazioni soggettive che da adito a ogni sorta di ingegneria contabile e finanziaria, accettata dai regolatori, ma non dagli investitori. Ingegneria che il regolatore contrasta, per esempio spingendo le banche a cedere rapidamente i crediti deteriorati sul mercato e a valutarli in modo più prudenziale.

Interventi che però indeboliscono patrimonialmente le banche: ma non potendo ricorrere al mercato per via della insufficiente redditività, riducono il rischio complessivo delle attività.

Così la politica del credito diventa anche pro-ciclica, l’opposto di quanto il regolamentatore (e gli imprenditori) vorrebbero. Un circolo vizioso che la crisi da Covid ha messo in luce.

Confusione da Covid

A peggiorare le cose i segnali contrastanti del regolatore di fronte al Covid. Da una parte vorrebbe convincere che il sistema è ormai solido e capace di sostenere l’economia di fronte alla crisi, al punto da ridurre a marzo i coefficienti patrimoniali richiesti. Ma al tempo stesso ha bloccato il pagamento dei dividendi per costringere le banche a preservare il capitale, segno inequivocabile che non si fida della solidità futura del sistema.

Un segnale che non tranquillizza gli investitori, e anche gli imprenditori che si preoccupano di cosa succederà ai loro prestiti una volta usciti dall’emergenza sanitaria.

La contraddizione di fondo è che il regolatore ha posto come obiettivo primario, direi quasi esclusivo, la massimizzazione di patrimonio e liquidità, con la redditività variabile residuale. Ma in un sistema dove il capitale è fornito dai privati la priorità dovrebbe essere la redditività, pur soggetta a vincoli sulla leva e sui rischi.

Naturalmente anche le banche ci hanno messo del loro: in cinque anni il rapporto costi/ricavi è aumentato (da 60,5 a 67,6 per cento), hanno perso sistematicamente segmenti delle attività maggiormente redditizie a favore di società non bancarie, o bancarie non tradizionali, e promesso una politica di elevati dividendi, pur essendo altamente cicliche, come fossero società di servizi di pubblica utilità, dai cash flow stabili.

La regolamentazione ha inoltre contribuito a rafforzare quel legame tra banche e finanza pubblica, che si prefiggeva di rescindere. Per ridurre il rischio degli attivi e aumentare il rapporto LCR (tasso di copertura della liquidità), le banche sono indotte a investire nelle attività a maggior rendimento tra quelle che la regolamentazione considera prive di rischio: per le italiane sono i titoli di stato. Così, da inizio Covid, ne hanno acquistati per oltre 60 miliardi.

L’esposizione allo Stato è aumentata anche a causa della garanzia pubblica ai prestiti per l’emergenza sanitaria, che così diventano privi di rischio ai fini della regolamentazione, esattamente come le Gacs: pensate per promuovere il collocamento sul mercato delle tranche senior delle cartolarizzazioni dei non performing loan (Npl), le banche se le sono invece tenute tutte nei loro bilanci (e quindi gli Npl) proprio perché, per le regole vigenti, potevano considerarle prive di rischio. Un legame che deprime ancora di più le valutazioni delle banche nei paesi altamente indebitati come l’Italia.

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