Il Consiglio europeo del 30 e 31 maggio è l’ultima occasione per influenzare l’andamento della guerra in Ucraina con un embargo all’acquisto di petrolio russo, scelta che priverebbe Vladimir Putin di circa il 50 per cento delle sue entrate fiscali. L’Ungheria si oppone, e dietro la resistenza di Viktor Orbán si nascondono la Germania e anche l’Italia, che temono le conseguenze economiche dello stop. Senza l’embargo, i paesi che a parole si dicono ostili a Putin continueranno a finanziare la guerra. Anche con le misure che servono ad alleviare il costo della benzina e dell’energia per i consumatori domestici.

Con provvedimenti come quelli contenuti nel decreto Energia del governo Draghi – lo sconto sulle accise della benzina per mitigare il prezzo finale – si trasferiscono risorse pubbliche dai contribuenti italiani alla Russia.

Tre economisti hanno condotto una analisi microeconomica degli effetti di un taglio delle accise (Johan Gars, della The Royal Swedish Academy of Sciences, Daniel Spiro e Henrik Wachtmeister di Uppsala) e il risultato è che a livello europeo una riduzione delle accise di 20 centesimi al litro si traduce in un beneficio percepito dal consumatore di 9 centesimi al litro ma in un aumento del gettito per Putin di 39 milioni di euro al giorno nel brevissimo periodo (che scendono a 11 nel medio e 12 nel lungo).

Per dare un’idea dell’impatto sulla guerra: un soldato russo riceve l’equivalente di 7.500 euro all’anno, con un solo giorno di extra profitti nel medio periodo; quindi con 11 milioni al giorno la Russia può pagare 1.400 soldati in Ucraina, o 1.500 poliziotti per reprimere il dissenso o 1.600 propagandisti per fare disinformazione, secondo le stime dei tre economisti.

Una riduzione sull’accisa equivale, da un punto di vista microeconomico, a un sussidio alla domanda: ci sarà una richiesta di benzina superiore a quella che il prezzo di mercato (cioè, semplificando, prezzo della materia prima più tasse prima dello sconto) determinerebbe. A fronte dell’aumento di domanda, l’offerta però è relativamente rigida e, soprattutto nel breve periodo, non aumenta abbastanza da compensare la nuova domanda. Così un intervento che vorrebbe ridurre il prezzo della benzina lo fa salire, almeno in parte, e questo spiega perché il consumatore percepisce come beneficio meno della metà del costo.

Il caso italiano

Il Pil dell’Italia è circa il 14 per cento di quello europeo. Se assumiamo che i consumi di benzina siano proporzionali al Pil, l’intervento sulle accise da 25 centesimi al litro deciso a marzo dal governo Draghi (e prorogato fino a luglio) porta nelle casse di Putin un extra gettito di 2 milioni di euro al giorno, che fanno 60 milioni al mese, 240 milioni almeno per la durata dell’intervento, abbastanza per pagare lo stipendio a 32.000 soldati sul terreno ucraino.

Ci sarebbero cose molto più utili da fare e senza effetti collaterali: dal punto di vista della domanda, meglio trasferire direttamente i soldi ai contribuenti a basso reddito, invece che sussidiare la domanda complessiva (i consumi di benzina scenderebbero, gli italiani più poveri che non possono ridurli sarebbero comunque indennizzati). Dal lato dell’offerta, la cosa più urgente sarebbe un aumento della produzione da parte dei paesi riuniti nel cartello produttori dell’Opec, come ha chiesto il vertice dei ministri dell’Energia del G7 in Germania. Il problema è che la Russia fa parte dell’Opec+ (cioè Opec più Russia) che ha addirittura ridotto la produzione dopo la pandemia, prima di iniziare un aumento molto graduale. Con l’embargo petrolifero, i prezzi salirebbero un altro po’, ma meno di quanto si teme (la Russia venderebbe il suo petrolio ai paesi fuori dall’embargo, facendo scendere la domanda e dunque il prezzo del petrolio non russo). Oppure possiamo continuare a finanziare Putin comprando il suo gas e il suo petrolio e con gli interventi fiscali a sostegno dei consumatori occidentali. Ma poi non lamentiamoci se la guerra dura mesi o addirittura anni.

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