Il finale era stato già scritto. Il “governo del paese senza aggettivi”, come lo aveva definito Mario Draghi nel suo discorso di insediamento, poteva reggersi alla sola condizione che tutti i partiti della sua larghissima maggioranza fossero disposti a sostenerlo senza defezioni e fino all’ultimo.

Ogni minima variazione, in quella singolare “coalizione di opposti”, avrebbe fatto venire meno il “patto fondativo” e con esso il governo Draghi.

Del resto, in questa legislatura erano state varate tutte le formule politiche possibili, visto l’esito elettorale del 2018: quella giallo-verde, “populista e sovranista”, di Di Maio e Salvini; quella giallo-rossa, con l’alleanza tra M5s-Pd-Leu e Iv (creato da Renzi appena nato il Conte II); e, infine, il governo di unità nazionale nato sotto la regia di Sergio Mattarella e affidato a “super Mario” Draghi per affrontare l’emergenza pandemica e varare il Pnrr.

Qualsiasi variante, specie a fine legislatura, con Draghi alla guida del governo, non era perciò praticabile: e “l’assenza di prospettive per dar vita ad una nuova maggioranza” ha correttamente indotto il Presidente Mattarella a sciogliere le camere.

Le anomalie della crisi di governo

Questa crisi di governo rimarrà negli annali della storia parlamentare del paese per le tante anomalie che l’anno contraddistinta. Il governo Draghi si è dimesso non perché sconfitto da un voto di sfiducia delle camere.

Le dimissioni (presentate per ben due volte) sono state confermate al Capo dello stato che “ne ha preso atto” nonostante Draghi abbia avuto tre volte la fiducia (una volta alla camera e due al senato).

I tre partiti decisivi in questa crisi (M5s, Ln e Fi), del resto, non hanno apertamente mai negato la propria fiducia al premier, sfruttando a proprio comodo gli arzigogoli della prassi parlamentare, come l’uscita dall’aula al momento del voto (i pentastellati il 14 luglio, leghisti e azzurri il 20 luglio) o la presenza in aula ma senza votare (i pentastellati nel voto di fiducia del 20 luglio).

Lo stesso Capo dello stato – di fronte alla “commedia dell’assurdo” andata in scena al Senato, conclusasi con i 97 sì accordati ad un esecutivo trasformato in un governo di minoranza, non ha potuto fare altro che sciogliere anticipatamente le camere.

Senza consultazioni, ormai del tutto inutili (anche per averle svolte in via informale durante le ore più frenetiche della crisi).

Senza tentare altre strade, del tutto impraticabili visto il film di questa legislatura e dei suoi tre governi assolutamente eterogenei.

Affari correnti e decisioni gravi

A gestire la prima assoluta di elezioni in autunno (il 25 settembre) provvederà il governo Draghi, con i poteri limitati propri di ogni governo dimissionario. Il “disbrigo degli affari correnti” è la formula usata, che indica, in questi casi, una gestione dell’amministrazione limitata all’essenziale.

Certo, precedenti alla mano, l’urgenza e le emergenze possono comunque giustificare l’adozione di tutti gli atti necessari allo scopo (anche ricorrendo ai decreti-legge), finché non ci sarà un nuovo governo nella pienezza dei poteri.

È evidente, però, che la forza politica di un governo dimissionario, anche se guidato da Draghi, condizionerà la fitta agenda delle cose che attendono il Paese, in Europa, sui mercati finanziari, sul piano economico-sociale e nella legge di bilancio da approvare entro l’anno.

La gravità e l’irresponsabilità di una crisi al buio emergono nettamente al cospetto di alcune decisioni particolarmente rilevati, perché connotano la qualità di una democrazia.

I convitati di pietra, specie in Italia, sono le scelte cruciali per fronteggiare il costo del denaro innescato dalla decisione della Bce di innalzare i tassi di interesse, per affrontare i vincoli di bilancio connessi alla spesa sugli interessi legati a un debito pubblico che supera il 150 per cento del Pil, per sfruttare al meglio la prossima tranche di finanziamenti europei destinati all’attuazione del Pnrr (20 miliardi di euro).

Per venire incontro alle “pesanti conseguenze per le famiglie e per le imprese”, come ha ricordato il Capo dello stato nel motivare la decisione di anticipare le elezioni politiche.

La crisi di sistema

La nota più amara è la constatazione che neanche Mario Draghi ce l’ha fatta. Nonostante i meriti e i successi ottenuti, non possiamo far finta di ignorare che l’esecutivo guidato dell’ex banchiere centrale è stato una risposta eccezionale ad una situazione eccezionale.

La scelta di Mattarella, dopo la crisi del Conte II in piena pandemia e con il Pnrr da “mettere a terra”, era l’unica e la migliore possibile nel contesto dato.

Ma Draghi al governo, e la sua fine, sono l’ennesima metafora della grave crisi istituzionale che attraversa il nostro sistema parlamentare. Ciclicamente, dalla fine della prima Repubblica, abbiamo assistito ad un’alternanza tra politica e tecnica al governo.

Dopo Ciampi, il caso più eclatante si ebbe col governo Monti nel 2011. Il fallimento della stagione delle riforme e la continuativa crisi dei governi politici, anche di quelli fondati su leadership forti (Berlusconi e Prodi prima, Renzi poi) o su partiti a vocazione maggioritaria (il Pd, il Polo delle libertà, e quindi i 5 stelle), danno la sensazione che la Repubblica abbia giocato tutte le sue carte ma senza vincere mai una mano.

I partiti politici sono da tempo scatole vuote prive di struttura e di programmi, ben lontani dall’ideale costituzionale di associazioni dei cittadini «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Come può reggersi un governo parlamentare senza partiti politici? Come può la politica nazionale essere determinata e realizzata credibilmente se non ci sono “soggetti portatori” di ideali forti e di programmi credibili in Europa, nella politica internazionale, nella custodia dei diritti, nella crisi delle democrazie liberali di fronte all’aggressione, anche militare, delle autocrazie?

Le incognite del voto

La fluidità del quadro politico, confermata dalla fine del governo Draghi, è destinata ad aggravare la crisi di sistema. Il prossimo parlamento, ridotto di oltre la metà dei propri componenti grazie ad una riforma improvvisata e senza costrutto perché non seguita da altre necessarie modifiche di sistema, sarà eletto ancora una volta con il Rosatellum.

Quella formula elettorale, che collega un terzo dei collegi uninominali al riparto proporzionale dei voti, frammenterà ulteriormente il quadro politico, dividendo i partiti anche se coalizzati, proprio perché li spinge a misurare il proprio consenso individuale, incompatibile per definizione con qualsiasi logica di alleanza reale. Come nel 2018 è improbabile che dalle urne uscirà una chiara indicazione a favore di una maggioranza investita dagli elettori.

Ma stavolta i tempi stringono: dopo le elezioni le camere andranno riunite nei venti giorni successivi, per eleggere i rispettivi presidenti, formare i gruppi, affinché il Capo dello stato possa avviare le consultazioni. Senza una maggioranza certa – e visti i chiari di luna è probabile che nessuno vinca, neppure nel centro destra, dato in testa nei sondaggi – tutto potrebbe accadere.

Forse, anche un altro governo di unità nazionale, spinto stavolta, dalla necessità di evitare l’esercizio provvisorio di bilancio e dare seguito agli impegni europei e internazionali che, nel frattempo, saranno diventati ancora più incombenti.

L’urgenza della riforma di sistema

La verità è che se non si pone mano presto e subito alla riforma del sistema parlamentare, mediante una legge sui partiti e una nuova legge elettorale che determini come con il vecchio Mattarellum una democrazia dell’alternanza investita direttamente dai cittadini o, forse, anche attraverso l’elezione diretta del capo dello stato, il futuro dell’Italia non sarà molto diverso dal presente e dal passato recente. Di questo, però, parleremo nei prossimi giorni.

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