La parola politica è risuonata dieci, cento volte ieri mattina alle commissioni parlamentari Esteri riunite in urgenza per dibattere della guerra Israele-Iran. Ripetuta come un mantra dal ministro degli Esteri Antonio Tajani nella sua replica, per giustificare la sua gaffe sul mancato avviso dell’attacco israeliano. Snocciolata come un rosario di «ambizioni meschine, di millenarie paure, di inesauribili astuzie», avrebbe aggiunto Fabrizio De André. La politica che è morta sul piano internazionale, travolgendo le istituzioni nate per arbitrare le controversie tra Stati. Le Nazioni Unite, il Wto, e naturalmente l’Unione europea, afona e livida, com’è Ursula von der Leyen in questo secondo mandato.

La delegittimazione delle agenzie sovranazionali, considerate tutte di parte e depotenziate della loro autorevolezza, l’impotenza delle diplomazie, il moltiplicarsi dei format che danno l’impressione del movimento e invece occultano la paralisi, sono il contesto in cui contano soltanto i brutali rapporti di forza: la forza militare, prima di tutto. «Il diritto alla forza e non la forza del diritto», l’ha chiamata ieri nel suo intervento alla Camera la segretaria del Pd Elly Schlein.

Di fronte alla forza militare non c’è dibattito parlamentare o appello alla pace che tenga (come quello di papa Leone XIV). I ministri degli Esteri di ogni paese perdono peso, a vantaggio dei ministri della Difesa e dei responsabili dell’intelligence. Ogni governo diventa gabinetto di guerra. E al vertice c’è il capo del governo, con l’uniforme del commander in chief.

Con questo criterio, tipicamente sovranista, Giorgia Meloni è felice di sentirsi inamovibile e di incassare copertine glamour sulla stampa europea. Ma sul piano politico guida un’Italia irrilevante. Con l’appiattimento del governo su Netanyahu, più ideologico che strategico, c’è lo strappo con la tradizione italiana di protagonismo nell’intera area, che fu tipico dei governanti del centrosinistra, da Moro a Andreotti a Craxi, fino ad arrivare a tempi più recenti: nel giugno 1998 Romano Prodi fu il primo capo di governo occidentale ad andare in visita in Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979, con il consenso dell’allora inquilino della Casa Bianca Bill Clinton.

Stagioni remote o vicine in cui mai un capo del governo italiano avrebbe pensato di proporsi come la copia conforme del presidente americano, come ha fatto Meloni con Trump. Perché è nell’autonomia della propria azione politica, grande o piccola che sia, e non in una scontata affermazione di fedeltà ai valori occidentali, che l’Italia ha trovato il suo spazio di manovra e la possibilità di essere ascoltata. Quando ha rinunciato è tornata relegata nella subalternità.

I venti di guerra sono una difficoltà in più per chi vuole costruire l’alternativa, non solo per le divisioni nella coalizione progressista da costruire. Alimentano il blocco sociale fondato sul conformismo di una stampa che si gloria di essere servile, che gareggia nel dichiararsi innamorata della premier, senza pudori almeno senili, che esalta in prima pagina un ex segretario della Cisl ricompensato con una poltrona sottogovernativa e relega nelle pagine interne le critiche arrivate all’immobilità del paese dalla presidente dei giovani industriali Maria Anghileri a Rapallo.

La guerra chiama all’unità, contro i disfattismi, fa apparire oziose tutte le altre questioni: la qualità della democrazia, la cattiva salute delle assemblee parlamentari, il rispetto delle opposizioni, che si esprimano nelle piazze su Gaza, come una settimana fa, o nelle urne, come nei referendum, con oltre tredici milioni di elettori disposti a partecipare con lo strumento del voto.

In queste condizioni il fattore K che condizionò come una cappa tutta la stagione della guerra fredda potrebbe apparire oggi quasi una prateria di libertà da rimpiangere, rispetto al restringimento di orizzonti dei tempi. Eppure è in questo orizzonte, strettissimo, che si muove chi ha fiducia nella politica e nella democrazia come cambiamento pacifico dei rapporti di forza.

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