Sono mesi che parliamo del Recovery Plan, lo strumento che l’Unione europea si è data per limitare la crisi innescata dalla pandemia e che si chiama in realtà Next Generation Eu: 750 miliardi di euro ci sembravano un’enormità. Noi italiani litighiamo già da tempo su come spartire la nostra fetta: oltre 191 miliardi. Gli Stati Uniti di Joe Biden ci costringono a una domanda imprevista: e se quei soldi fossero drammaticamente pochi?

Nei suoi primi tre mesi alla Casa Bianca Joe Biden ha approvato un pacchetto di misure da 1.900 miliardi di dollari chiamato impropriamente di “stimolo” all’economia. Il suo nome ufficiale, “Covid relief bill”, era più appropriato perché non di stimolo si trattava ma di ristori o sostegni, per usare termini di recente moda in Italia.

Quei 1.900 miliardi sono spesa sociale a beneficio soprattutto delle fasce sociali più deboli per mitigare i danni della crisi. Ma perfino i difensori di quel piano riconoscono che i 1.900 miliardi di dollari avranno un moltiplicatore negativo. A fronte di un aumento del debito di 1.900 miliardi, la cifra che si tradurrà in consumi e in Pil sarà molto più bassa. Perché se con quei soldi una famiglia paga bollette arretrate o evita di perdere punti come debitore nei confronti della banca avrà sicuramente un beneficio che però non si traduce in prodotto interno lordo. Ma anche perché non tutti gli americani hanno speso per intero i soldi ricevuti a pioggia dal governo federale – pria da Trump e poi da Biden – e dunque hanno al massimo aumentato i risparmi, senza incrementare i consumi e, in certi casi, lavorando addirittura meno di quello che sarebbero stati costretti a fare senza sostegno pubblico.

Aspettando la ripresa

Secondo il Fondo monetario internazionale, nel mondo il supporto fiscale all’economia ha raggiunto a dicembre 2020 la cifra di 14.000 miliardi di dollari. Questo, da un punto di vista puramente macroeconomico, è debito “cattivo”. Cioè debito che ha ridotto il dramma sociale della crisi ma non è andato a finanziare investimenti utili a far salire la produttività e dunque a sostenere la crescita. Si tratta di una gigantesca, inevitabile, zavorra sulla crescita futura il cui vero costo è ancora incerto.

Dipende da quanto correrà il Pil nella ripresa e da quali interessi chiederanno i creditori sui mercati al debito di nuova emissione. La velocità della ripresa influisce sulla sostenibilità del debito attuale, ma anche sulle ricadute negative di medio periodo della crisi di oggi: una ripresa troppo lenta potrebbe generare insolvenze tra le imprese e sofferenze bancarie (l’Italia attivato garanzie pubbliche per l’incredibile cifra di 967 miliardi, un terzo del Pil).

Il confronto tra come Stati Uniti ed Europa hanno usato il debito contro la crisi sociale è difficile, perché gli americani hanno dovuto offrire come strumenti di emergenza aiuti e protezioni che da noi, per quanto farraginosi, scattano in automatico quando il ciclo economico volge al negativo. Limitiamo la comparazione al debito “buono”, cioè a Next Generation Eu e l’American Jobs Plan, il nuovo pacchetto da 2.900 miliardi di dollari.

Meglio cambiare i tubi dell’acqua

L’Ue è, sulla carta, più ambiziosa degli Stati Uniti: con i suoi 750 miliardi vuole innescare un cambiamento strutturale, per una crescita più sostenibile e una transizione ecologica. La realtà è più prosaica: l’Italia userà oltre un terzo delle somme a disposizione, 66 miliardi, per finanziare progetti esistenti, quindi il Next Generation serve solo a risparmiare un po’ di interessi sul debito (a tassi agevolati invece che di mercato). Per il resto, le solite faraoniche grandi opere, che richiederanno, se va bene, decenni, sussidi che producono qualche posto di lavoro assistenziale al sud e visionari progetti dall’esito incerto, tipo la costruzione della filiera dell’idrogeno.

L’American Jobs Plan, invece, è in gran parte fatto da manutenzioni di strade, autostrade, porti e aeroporti, e progetti dal sapore novecentesco come sostituire “il cento per cento delle tubature in piombo del paese” (111 miliardi di dollari) e  ristrutturazione o costruzione di 2 milioni di case popolari. Poi, certo, anche nel piano di Biden c’è la banda larga, le energie rinnovabili e tutto il resto. Ma ci sono soprattutto misure dall’immediato impatto sul Pil, con effetti redistributivi, anche perché il presidente vuole finanziare parte dei 2.900 miliardi con un aumento delle tasse per le grandi aziende e con una serie di misure regolatorie che ridurranno la possibilità di trasferire quell’aggravio fiscale in aumenti di prezzi.

L’America, insomma, si prepara a ripartire a razzo con le premesse concrete di una maggiore equità. L’Europa rimarrà a guardare. Un analogo ritardo dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 ha fatto sprofondare l’Ue in una crisi tutta europea, quella del debito sovrano del 2011 e 2012. Speriamo che questa volta vada diversamente.

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