L’ambiente deve essere una priorità per i governi di tutti i Paesi; e la rivoluzione verde può essere un potente volano per l’innovazione tecnologica e gli investimenti. Ci sono però serie ragioni per essere scettici sull’obiettivo del Green Deal Ue (Gde) di fare dell’Europa il primo continente a impatto climatico zero nel 2050 (net zero).

Il rischio è che il net zero finisca per essere solo un contenitore vuoto, con un lascito però di tanto debito per investimenti dai ritorni precari.

Negli ultimi 20 anni abbiamo vissuto la rivoluzione tecnologica, con Internet, e quella biogenetica in medicina, che hanno inciso profondamente su comportamenti e relazioni.

Quella verde ha le caratteristiche per essere una nuova rivoluzione ma, a differenza delle due precedenti che hanno richiesto prevalentemente capitale intangibile (in primis capitale umano), richiederà ingenti quantità di capitale fisico.

Dal fossile alle rinnovabili 

Si tratta, prima di tutto, di orientare gli attuali investimenti in energia fossile (si stima, 1.000 miliardi l’anno) verso le fonti rinnovabili. A cui aggiungere la domanda indiretta di rinnovabili per produrre beni e servizi.

Non bastano infatti gli investimenti nell’elettricità verde necessaria ad alimentare le auto elettriche; c’è bisogno anche di rinnovabili per produrre l’acciaio, la plastica, il vetro e tutte le componenti di cui sono fatte le vetture elettriche, e che per il net zero dovranno sostituire le 1,2 miliardi di auto oggi in circolazione; idem per gli 1,8 miliardi di frigoriferi, e così via.

Qualunque stima degli investimenti necessari è necessariamente inaffidabile, ma si ipotizza che sarebbe un multiplo di tutti gli investimenti oggi fatti nel mondo. Semplicemente irrealistico. Ho l’impressione che l’annuncio del Gde abbia creato nell’opinione pubblica la pericolosa illusione che sia un pasto gratis.

Invece, il debito che finanzierà gli investimenti green, pubblico e privato, sarà sostenibile solo se il prezzo dell’energia rinnovabile, e dei beni la cui produzione la richiede, aumenterà a sufficienza da rendere questi investimenti remunerativi (o se aumenteranno le tasse).

Oggi, il solare rappresenta appena il 10 per cento dell’energia prodotta in Europa (al massimo, il 17 in Germania), meno del carbone (14) la fonte più inquinante.

Il nodo del sistema Ets

Per spostare così tante risorse è anche necessario rendere convenienti le energie rinnovabili, cioè indurre un forte incremento del costo relativo delle fossili.

Questo dovrebbe essere il ruolo del sistema europeo Ets dei certificati per le emissioni (che le industrie devono acquistare per compensare le proprie emissioni) e delle varie proposte di carbon tax.

Per ora non funziona perché l’aumento del costo dell’energia provoca resistenze dell’industria e malcontento sociale (vedi “gilet gialli”).

Così, per esempio, nonostante il prezzo degli Ets sia raddoppiato da inizio anno, ad agosto in Germania era più conveniente produrre elettricità col carbone, il fossile in teoria più penalizzato dagli Ets, rispetto al gas, perché l’aumento del prezzo di quest’ultimo è risultato superiore a quello degli Ets.

L’auto elettrica è un altro esempio di prezzi relativi incongruenti agli obiettivi del green deal. Un’auto elettrica richiede mediamente 80 chili di rame, il quadruplo di una tradizionale: anche ai prezzi attuali, la maggior domanda di rame avrebbe, da sola, un valore pari al costo del petrolio risparmiato dalle vetture elettriche.

Per essere efficace ed evitare sprechi di risorse finanziarie, gli straordinari investimenti richiesti dal Gde richiederebbero un piano coordinato e chiare scelte tecnologiche da parte dei governi europei. Invece, ogni paese decide autonomamente incentivi, autorizzazioni, regole, e standard differenti. Né si fanno chiare scelte di campo.

Per esempio, si continua a puntare nel lungo periodo sul gas naturale, come dimostrano le due nuove grandi infrastrutture del Nord Stream e Tap (che terminano in Germania e Italia) e quella progettata del Blue Stream (per il gas del Mediterraneo orientale), con una vita utile oltre il net zero del 2050.

Il paradosso delle navi

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Altro esempio, il trasporto marittimo. Le navi hanno una vita utile di circa 25 anni: le scelte di oggi condizionano quindi la quantità di emissioni nel 2050. La danese Maersk, la più grande flotta porta container al mondo, ha appena deciso di puntare sul metanolo come combustibile verde per otto sue nuove navi. Ma quale sarà lo standard del futuro?

Secondo uno studio, nel 2050 quasi la metà delle navi opererà ancora con combustibili fossili, mentre l’altra si dividerà tra metanolo, ammoniaca, biocarburanti, e in misura minure, idrogeno e gas. Questa frammentazione tecnologica è il modo migliore per massimizzare il costo della conversione verde del trasporto marittimo.

Il Gde dovrebbe anche essere la grande occasione per l’idrogeno: ma con quale tecnologia? Oltre al grigio (prodotto col gas), blu (con cattura del CO2), verde (con energie rinnovabili), e semi-verde (con elettricità della rete alimentata in parte da rinnovabili), esiste anche quello turchese, giallo, e rosa. E con quali costi?

L’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili ha stimato in 420 miliardi il costo annuo per l’idrogeno verde nel 2030 (tra rinnovabili per la sua produzione e utilizzo, nuove infrastrutture necessarie e adattamento di quelle esistenti); molto meno, ovviamente, la stima dell’Associazione dei produttori di idrogeno.

Quale che sia la vera cifra degli investimenti le stime sono viziate da due ipotesi errate: che per produrre l’idrogeno ci sarà una capacità di energia rinnovabile in eccesso a quella necessaria a sostituire l’elettricità oggi prodotta da fonti fossili, oltre ad alimentare il parco di auto elettriche; che le economie di scala rendano conveniente l’idrogeno, abbattendone il prezzo, e che il costo opportunità delle fonti fossili diventi proibitivo.

Cingolani e il nucleare 

Interpreto l’uscita estemporanea del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sul nucleare come la conferma, poco trasparente e inappropriata, che il Gde, più che un piano ben studiato e articolato, sia piuttosto un felice slogan politico e una nobile giustificazione per erogare soldi pubblici. Ma se anche l’Europa riuscisse a ridurre sostanzialmente le sue emissioni, come auspicabile, il riscaldamento globale dipende dal resto del mondo, molto meno disposto a sostenere il costo della transizione verde: così l’Agenzia Internazionale per l’Energia ci avverte che, con le politiche attuali, nel 2030 si produrranno nel mondo le stesse quantità di CO2 del 2019.

Il rischio è che il Gde sia inefficace per il riscaldamento globale, ma ci lasci in eredità gli elevati costi della transizione e l’enorme debito per finanziarla.

A vantaggio di alcuni come l’industria finanziaria che vede nelle gestioni Esg (investono in aziende rispettose dell’ambiente, anche se nessuno verifica che lo siano davvero) e nei green bonds (400 miliardi emessi nel 2021, destinati a raddoppiare in due anni, per finanziare investimenti “verdi”) la nuova gallina dalle uova d’oro.

O come le grandi aziende italiane a partecipazione pubblica che, grazie all’azionista Stato, riusciranno meglio di altre a farsi finanziare coi soldi pubblici del Pnrr i progetti green per migliorare il loro appeal presso gli investitori; ma usare le risorse finanziarie così risparmiate per investimenti molto poco green.

Per esempio Eni, che promette il net zero nel 2050, ma che allo stesso tempo continua l’attività di esplorazione, e ha appena annunciato la scoperta di un nuovo importante giacimento di greggio in Costa d’Avorio.

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