Guardare la luna, non il dito: la riforma della giustizia è il tassello di un disegno

Il problema della giustizia non è solo quello della giustizia. Si potrebbe riassumere in questo modo la mia preoccupazione nei riguardi della riforma appena varata. Qualcuno l’ha definito tempo esecutivo. Quello in cui le democrazie si sono trasformate da delicati meccanismi congegnati sulla base del rispetto della separazione dei poteri a dispositivi sommari in cui la pluralità dei poteri è ricondotta violentemente alla tirannia dell’uno. L’uno è il governo di turno, certo. Ma in quella definizione ciò che colpisce è la complessità della faccenda. Che non è semplicemente politica. Non riguarda solo le forme dello stato ma addirittura un certo modo di attraversare il tempo e la storia. Il governo vuole toghe intimidite e che non disturbino Forse è proprio questo il grande enigma che la sinistra non riesce a decifrare: la crisi politica è ben più che politica e, dunque, non bastano le interpretazioni specialistiche per venirne a capo. Avviene così che la categoria di esecutivo, che rinvia in sé a nulla più che a un potere dello stato, evochi addirittura un nuovo codice del tempo. Un tempo in cui la nostalgia del capo, della sua potenza e, in ultima istanza, della sua violenza legittima, ridefinisce interamente le società occidentali: dalle istituzioni educative a quelle economiche, tutto ormai risuona come un’evocazione di questa nostalgia tribale. L’esecutivo è un tempo, non è più un organo di governo. È questa l’orbanizzazione della società. Un inquietante mix di autoritarismo, nazionalismo e neofeudalesimo che ha sostituito la società divisa in classi e ci costringe a una strana gerarchizzazione tra coloro che comandano, coloro che eseguono e coloro che subiscono. Meloni punta al referendum. La strategia è dividere i giudici Il difetto di percezione Ora, il più grande strumento di propaganda a favore di questa riforma della giustizia è a mio avviso un difetto di percezione. È come se fossimo tutti costretti a fissare le cose attraverso uno zoom, per cui l’effetto è quello di scambiare una piccola parte per il tutto. Come è noto l’obiettivo di questa riforma non è affatto la separazione delle carriere, questione che di fatto non esiste sia perché è stata già attuata qualche anno fa sia perché i magistrati che cambiano veste sono una percentuale del tutto insignificante. La separazione delle carriere è il dito, il tempo esecutivo la luna. Quale sia infatti l’obiettivo reale di questa riforma è stato già spiegato, si tratta di depotenziare il meccanismo di autogoverno per la magistratura e, in questa maniera, di sottomettere il potere giudiziario al primato dell’esecutivo. Si badi bene: non solo della magistratura inquirente, ma anche dei giudici il cui lavoro è oggi di garantire, per quanto possibile, condizioni di dignità per tutti. Se l’obiettivo propagandistico è quello di ridurre «la politicizzazione della magistratura», è evidente che ciò che accadrà sarà precisamente il contrario: una politicizzazione forzata della magistratura, che sarà costretta a seguire le indicazioni che proverranno dal governo. La magistratura non sarà più un organo determinante per il buon funzionamento di uno stato di diritto, ma sarà al servizio di ciò che si può tranquillamente definire nei termini di uno stato di polizia. Il suo compito non sarà di garantire l’uguaglianza di fronte alla legge, ma di perseguire e indagare dei reati invece che altri. Non è difficile capire quali saranno le priorità se a definirle sarà l’esecutivo. Qualcuno avrà giustizia, qualcun altro no. Soprattutto qualcuno potrà temere la giustizia, qualcun altro no. La rifeudalizzazione della società avviene anche così: da un lato coloro che non hanno nulla da temere e che potranno restare nell’impunità, dall’altro quelli che saranno sorvegliati e puniti ad oltranza. La giustizia messa al servizio della diseguaglianza. Il governo illiberale non accetta potere all’infuori del suo Allargare lo sguardo Ma c’è un’ultima conseguenza da segnalare, che riguarda il modo in cui fare la campagna elettorale. Certo dovremo occuparci di correggere quel difetto dello sguardo a cui ho fatto riferimento prima. Non parlare più di separazione delle carriere riportando invece al centro dell’attenzione la questione della politicizzazione della giustizia come conseguenza di questa riforma. Ma forse dobbiamo essere in grado di allargare il nostro sguardo e di far vedere la riforma della giustizia insieme a tutte le altre riforme che si stanno preparando e che si intrecciano. Penso alla riforma dell’Università, alle leggi liberticide sulla sicurezza, a quelle che con la scusa del (legittimo) pericolo dell’antisemitismo imbavagliano la libertà di parola, ai programmi di scuola riscritti ad uso e consumo di una propaganda che irride la storia, la scienza, la logica. Tutte queste riforme parlano la stessa lingua e appartengono allo stesso tempo, quello esecutivo. Ridefiniscono i contorni della nostra società, la dividono in pochi che comandano, qualcuno che esegue, molti che subiscono. Se perdiamo di vista l’intero, non riusciremo a mettere in salvo nessuna delle sue parti.