Caro direttore, tra tante altre cose la guerra cambia la nostra idea di tempo, ne sconvolge il ritmo e la misura, ne ricostruisce le catene: l’inesorabile legame tra il passato e il presente, e magari anche tra il presente e il futuro. Abbiamo vissuto fin qui nel culto dell’immediatezza. Liberi per quanto potevamo dal fardello della storia, e non troppo pensosi di quello che sarebbe potuto diventare il nostro domani.

Abbiamo attraversato e riattraversato di continuo la stagione del “presentismo”, tutta giocata sull’idea che ci si dovesse liberare dalle ombre che ci avevano lasciato in eredità i nostri padri e anche dalle incombenze che avremmo dovuto dedicare ai nostri figli. Mai nessuna decisione strategica, mai nessun senso della prospettiva. E mai nessun confronto con i nostri antenati.

L’improvvisazione del presente

Solo l’improvvisazione ci consentiva di stare al passo coi tempi. Ignorando se quei tempi, e quel passo, avessero avuto un senso e fossero destinati a portarci da qualche parte. È stata questa la regola della politica italiana da un bel po’ d’anni a questa parte. E di questa regola ci siamo stati forti mano a mano che essa ci indeboliva delle cose più preziose.

Ora invece guarda caso si combatte, drammaticamente, proprio su quel crinale. Si scopre che le ombre di ieri hanno ancora una densità minacciosa. E che qualunque sguardo rivolto più avanti, a quello che sarà, richiede uno sforzo di immaginazione di cui abbiamo perso l’abitudine. Perfino la cronaca di questo mese di guerra ci è parso anch’esso sottratto al tempo. Come sospeso. Un racconto tragico privo di un epilogo.

Ma è un equivoco. La realtà è che la storia degli uomini procede sempre per concatenazioni. Non conosciamo il passo che faremo, questo no. Ma non possiamo più ignorare i passi che abbiamo fatto fin qui.

Perché la tragedia della guerra ci rende chiaro che ogni gesto, ogni decisione, ogni errore, ogni cosa che sta alle nostre spalle con un balzo poi ci scavalca e si ripresenta sotto forma di un equivoco da dissipare, di un torto da riparare, di un ammonimento che si sarebbe dovuto ascoltare.

Il passato conta

Ora, il passato può essere sempre gravido di pretesti. E Vladimir Putin in modo del tutto strumentale, reinventa a misura delle sue convenienze una Russia che non c’è più e un’Ucraina che non è mai stata quello che dice lui. Ma appunto è il passato che alimenta la sua sfida.

E costringe noi, a nostra volta, a cercare nelle tradizioni quel deposito di coraggio che autorizza a combattere, o almeno a sostenere chi combatte anche per noi. Proprio questo, insisto, deve cambiare la nostra idea del tempo, conferendogli nuovamente una densità e una profondità di cui ci eravamo illusi di poter fare a meno.

Nessuno sa dire quanto durerà, tutto ciò. Se si deciderà sul campo, e in che tempi. O se invece la diplomazia ci condurrà da qualche altra parte, e fino a dove, e quando. Queste cose non le sanno misurare i protagonisti, tanto meno noi che siamo spettatori, lontani per giunta. Ma quello che invece è più evidente, o almeno dovrebbe esserlo, è che le grandi crisi che creano un attrito tra i popoli non sono mai figlie dell’improvvisazione.

Maturano poco alla volta, si fanno largo con passo lento, e quando poi deflagrano nella sorpresa generale delle vittime e degli spettatori attoniti innescano a loro volta spirali di conseguenze che si faranno sentire fin chissà quando.

Ma allora, se si può trarre una piccola conclusione da tutto questo, varrebbe la pena che la politica riguadagnasse prima di tutto un’idea del tempo. Del suo, e di quello altrui. Che finisse il culto dell’improvvisazione. Che tornasse ad avere un senso la correlazione che lega una stagione all’altra e una generazione all’altra.

In una parola, che si mandasse in soffitta a prendere la sua parte di polvere e di muffa quella illusione tanto scombiccherata per cui la politica è solo un eterno oggi sottratto contemporaneamente ai mille ieri e ai mille domani che formano, tutti insieme, il destino di una comunità.

Sui destini del conflitto ucraino non si possono fare previsioni. Ma sui destini politici che ne discendono per noi si può almeno cercare di ragionare. E magari di trarne perfino un piccolo margine per migliorare noi stessi. Quel conflitto ci avvisa infatti che la storia non è acqua fresca. E che ogni decisione che la chiami in causa non si può mai racchiudere dentro la parentesi della fretta distratta con cui noi siamo abituati a imprigionarla.

Prigionieri del nostro attuale culto del presente, ci siamo fatti sorprendere contemporaneamente dal passato e dal futuro. Avremmo dovuto ricordare l’uno e immaginare l’altro. Ma non ci è stato possibile perché eravamo dedicati solo alla nostra immediatezza. Senza considerare che si trattava solo di un breve attimo racchiuso tra la solennità della storia che ci eravamo lasciati alle spalle e la fantasia del divenire che non sapevamo progettare.

Ora la guerra ci avvisa che esiste invece, braudelianamente, la lunga durata. L’accumulo di cose che genera il destino e non consente di improvvisarlo. Una volta finita la carneficina ucraina, forse faremmo bene a considerare che questo insegnamento vale anche per noi. E tanto più per le piccole cose che appartengono alle nostre dispute politiche di tutti i giorni.

   

     

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