Fame di realtà. D’umano. Datemi un centro commerciale di sabato alle diciotto, magari di festa, un’antivigilia di Natale, datemi un fiume di gente dove potermi perdere, senza un traguardo che sia uno, senza nulla da fare, meno ancora da comprare, solo per il gusto di fiaccare gli occhi addosso ai miei simili. Sono in crisi d’astinenza, la scimmia che mi vive da sempre sulla spalla urla giorno e notte la sua fame chimica. Ho fame di realtà. Vista e vissuta.

Ma la realtà senza umano è come una bomba senza detonatore, come un’arena abitata da fantasmi che nulla hanno da pretendere gli uni dagli altri. Ho bisogno di ricredermi. Di cambiare idea. Di non credere ai miei occhi. Poi di crederci ardentemente sino a lasciarmi andare allo stupore.

Ho bisogno di odiare per come so fare, scandalizzarmi, poi pentirmi fino a masticare compassione. Tutto questo senza carne d’altri non mi riesce. Ormai vivo in due dimensioni. Nello schermo di un computer, ridotto a mezzo busto, oppure in primo piano a seconda dei desiderata dei miei simili privati della loro profondità, freezati in smorfie da piangere, o ridere, oppure nulla di tutto questo, solo noia dietro ad altra noia. Ognuno rinchiuso dentro la sua casa, un domicilio coatto che prevede rare sortite, sempre le stesse.

La pena non è chiara. Come un manicomio a cielo aperto. I giudici che detengono la nostra libertà, gli uomini abituati alle misure microscopiche, confliggono gli uni con gli altri.

C’è chi vuole un nuovo ingabbiamento totale, altri, moderni democristi, che si piantano nel mezzo, un tanto liberi, quel tanto che basta a non sentirsi prigionieri; gli ultimi, i libertari, che vorrebbero aprire tutto, in primis le piste da sci dove potersi allegramente giocare i crociati. Io rivoglio la mia realtà. Non mi accontento di niente di meno. I luoghi più sporchi, la promiscuità più stretta che si possa immaginare. Rivoglio lo stadio con il vicino che ti alita le sue congetture tattiche, il concerto con la ragazza ubriaca che ti sviene di fianco, la discoteca dove i corpi diventano uno solo. Voglio guardare per quanto toccare, stringere, senza mascherina, senza guanti, l’igienizzante al massimo per pulire il cesso, perché prima a questo serviva. Voglio rientrare a casa e puzzare di fumo che non ho fumato personalmente, profumare di Chanel n°5, mettere una mano in bocca e sentire il sapore di qualcosa che non so riconoscere, ma che senz’altro non mi appartiene.

Voglio la sacra sporcizia che condividiamo nella metro, nei luoghi di lavoro, in fila alla posta mentre smadonniamo contro il vetro antiproiettile in direzione della cassiera evidentemente narcotizzata. Se non bastasse, voglio la lite al centro dell’incrocio, testa a testa con uno sconosciuto che mi urla sul viso perché vuole avere ragione anche se non ce l’ha, o forse sì, e se non bastasse ancora, voglio un volo aereo diretto a Nonimporta, ma pieno, strapieno, di quelli che se c’è ancora solo un batterio siamo tutti fottuti e buonanotte. Perché sono civilizzato, inquadrato, normalizzato, ma i mesi passano e l’orizzonte è una linea tirata con lo spago, si allontana e avvicina a seconda dei gusti, e dall’autunno eccoci quasi alla primavera e molti corvi, corvacci, già mettono in ginocchio l’estate per spararle alla nuca. Perché non sarà un’estate come le altre. Come se tutto il resto appena trascorso lo fosse stato.

Allora siate decisi, non fatemi dare ragione a Salvini, prima di urlare non appena vedete un microfono acceso lavatevi i panni e i contagi in famiglia. E soprattutto, fate pace con il cervello. C’è da chiudere? Si chiuda. Ma contemporaneamente si facessero vaccini a nastro, reclutando tutto il reclutabile, dai militari agli infermieri con la siringa in pensione. Ma tutti abili e arruolati. Per arrivare a una data possibile, un rompete le righe. Una liberazione da festeggiare per le strade con marinai a baciare infermiere.

Ma permettetemi, permetteteci, di ritornare alla vita e alla libertà con il sorriso dei giorni migliori. Amen.

 

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