La legge di Bilancio 2021, punto centrale della politica economica di un paese, è al giro di boa per evitare l’esercizio provvisorio ed è ricca di bonus di ogni foggia e dimensione, come fosse il sacco della Befana.

Ce ne sono di tutti i tipi: quello relativo alla sostituzione di sanitari e rubinetteria per migliorare il risparmio delle risorse idriche, quello che riguarda i televisori allo scopo di favorire la sostituzione dei vecchi apparecchi in favore di altri idonei alle nuove tecnologie, quello per il kit per la digitalizzazione (cellulare) così da ridurre il divario digitale delle famiglie a basso reddito con almeno un componente iscritto a un ciclo di istruzione scolastica o universitaria. Una legge di Bilancio ricca di nuovi bonus a pioggia, ma scarsa di politiche di sviluppo economico di medio-lungo respiro. Saranno queste tipologie di intervento a fermare il declino del paese?

Sì è vero, ci sono le agevolazioni fiscali per le imprese che avviano una nuova attività nelle zone economiche speciali del Mezzogiorno, con la riduzione del reddito di impresa del 50 per cento per sei anni; ma sono queste le norme che fermeranno gli effetti della delocalizzazione o che sapranno attrarre investimenti stranieri nel Sud Italia? Sono in molti a dubitare.

La globalizzazione e le delocalizzazioni nei paesi dell’Est Europa e in Cina hanno deindustrializzato l’Italia incapace, se non in pochi casi isolati, di fare il salto di qualità di massa nella catena di produzione globale per mantenere inalterate le quote di export. Troppo esigua la quota societaria riservata dagli imprenditori del Bel Paese in media a investimenti in Ricerca e sviluppo e pochi i grandi gruppi multinazionali capaci di una visione di lungo respiro e dalle spalle finanziariamente robuste.

Troppo poche le startup innovative nei settori di punta (salvo pochi casi degni di nota) e troppe le occasioni perse in settori strategici nel recente passato.

Da qui discende il senso di precarietà e la stasi economica che frena da un ventennio l’economia italiana (negli Usa i consumi pesano per il 70 per cento sul Pil, seguiti da investimenti ed export).  Se i consumi languono a causa della precarietà lavorativa, invece che ridurre la medesima non sarebbe auspicabile dare garanzie di stabilità giuridica ripristinando le tutele e migliorando nel contempo la competitività del sistema con riforme strutturali in campo fiscale, amministrativo e della concorrenza contrastando nel contempo le burocrazie e le rendite parassitarie? Non sarebbe meglio legare i salari alla produttività regionale come invano richiesto dall’Ocse da decenni?

Invece si preferisce offrire bonus fiscali di assunzione o di spesa a pioggia a carico dello Stato trasformando il cittadino in consumatore dipendente dal clientelismo pubblico mediato dai partiti di governo. Non solo.

La precarietà del futuro dei giovani fa ridurre il tasso di sviluppo demografico facendo invecchiare sempre più la popolazione e mandando in rosso i conti previdenziali.

Eppure gli italiani sembrano gioire nella gara spasmodica, che spesso manda in tilt il sistema, all’uso di bonus più stravaganti (monopattini e biciclette per risolvere il problema del traffico cittadino!) tramite App che digitalizzano la sudditanza politica tra gli insider e gli outsiders al sistema, vero termometro per capire la sperequazione sociale sempre maggiore.

Tutti felici di scaricare l’ultima app che ne condiziona ancora di più la dipendenza politica e sociale.

Se si vuole digitalizzare il paese si cominci con la scuola e la pubblica amministrazione e fornendo autostrade digitali veloci e pubbliche come in Svizzera.

Inoltre il sistema fiscale italiano penalizza dipendenti e pensionati con aliquote oppressive ma lasciando ampie zone di evasione ed elusione soprattutto a fasce sociali disinvolte rispetto ai doveri fiscali e a favore delle multinazionali del web.

Metà del paese vive a carico dell’altra

Dice l’esperto di spesa pubblica Alberto Brambilla in modo rude ma efficace che secondo i redditi 2018 redatti nel 2019 il 43,8 per cento dei contribuenti dichiara redditi da zero a 15mila euro lordi e versa solo il 2,42 per cento dell’Irpef, un altro 13,8 per cento ne versa il 6,56 per cento e questo significa che il 57,72 per cento degli italiani versa l’8,98 per cento dell’Irpef cioé 15,4 miliardi pari a soli 42 euro in media per ognuno dei 34,84 milioni di cittadini.

Dunque da questi scarni dati si evince che oltre la metà del paese vive dunque a carico dell’altra metà.

In sostanza il 13 per cento dei contribuenti con redditi sopra i 35mila euro versa il 59 per cento dell’Irpef. Sono dati di un membro del gruppo del G7 o un paese in via di sviluppo? Eppure l’esecutivo non si occupa di questa distorsione fiscale che blocca il Paese e crea allocazioni diseconomiche immani.

Un eccesso di tassazione sulle imprese ruba lavoro e opportunità alla collettività. Riducendo l’evasione si potrebbe «incentivare gli investimenti privati e abbassare le tasse sulle imprese» come suggerito l’11 dicembre scorso da Francesco Giavazzi.

Forse gli italiani dovrebbero porre la loro attenzione sulle politiche fiscali necessarie al Paese più che sulle app che promettono bonus a pioggia. 

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