La politica in Europa è un gioco a due livelli. I politici che contano a Bruxelles contano fino a che prendono voti nelle elezioni nazionali, dove successi e insuccessi hanno una relazione abbastanza vaga con quello che accade nelle istituzioni europee. D’altro canto, è vero che, per ogni partito nazionale di qualche rilievo è importante avere interlocutori e ruoli in quelle sedi. In particolare, per la delegazione di un singolo partito nazionale, stare dentro o fuori di uno dei maggiori gruppi del parlamento europeo vuol dire vedere crescere le possibilità di acquisire la titolarità sui Dossier (l’equivalente di essere relatore di un progetto di legge), di acquisire ruoli di presidente o vicepresidente di Commissione, di orientare il reclutamento di funzionari, di tessere alleanze per scopi politici generali o su singoli temi.

Per capire come sono visti dagli altri già accasati i partiti nazionali che cercano casa bisogna tenere conto non solo delle loro posizioni politiche ma anche delle loro dimensioni. Perché nel parlamento europeo vale per quasi tutto la “ferrea legge del d’Hondt”.

Tutto quello a cui un partito politico può ambire viene suddiviso tra i gruppi e, all’interno dei gruppi, tra le delegazioni nazionali di partito, su basi proporzionali. Se sei più grosso, il tuo turno per scegliere arriva prima e puoi scegliere il premio più prezioso ancora disponibile. Per dire, i socialisti spagnoli hanno 21 eurodeputati, quindi scelgono per primi quando c’è una serie di posizioni da allocare dentro il gruppo dei Socialisti e Democratici. Il Pd è il secondo partito con 17 seggi, l’Spd tedesca terzo con 16.

In cerca di un ruolo

Oggi ci sono tre grandi partiti in cerca di una nuova collocazione: l’ungherese Fidesz (12), i 5 Stelle (10) e la Lega (28). E qui già si capisce perché se verso i 5 Stelle ci sono cautele da parte di S&D (diventerebbero il quarto partito per grandezza), per il Ppe è impossibile accogliere Salvini (diventerebbe il primo partito all’interno del gruppo, secondo di poco, solo se si sommano CDU e CSU).

Era già da tempo prevedibile però che qualcosa si muovesse. La Cdu tedesca che ha per anni trattenuto il premier ungherese Viktor Orbàn dentro il Ppe, aveva fatto approvare a inizio 2021 una modifica del regolamento interno che avrebbe reso possibili le espulsioni. Un attimo prima che la nuova norma potesse essere applicata, Orbàn ha abbandonato.

Allo stesso tempo, Matteo Salvini è alla ricerca di una nuova collocazione rispetto a quella “ridotta dei paria” rappresentata oggi dal gruppo Identità e Democrazia, che include anche il Rassemblement national della Le Pen, Alternative für Deutschland e la Fpo (il partito cacciato dal governo austriaco dopo l’Ibiza-gate).

Era quasi inevitabile anche perché, dopo le elezioni del 2019 e la Brexit, non è più comprensibile la differenza tra questo gruppo, sottoposto al cordone sanitario anti-sovranisti, e il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR), di cui fanno parte Fratelli d’Italia, i polacchi di Diritto e Giustizia, il partito spagnolo di estrema destra Vox. I secondi erano nati per iniziativa dei Conservatori britannici, quando David Cameron voleva dimostrare ai suoi elettori nazionali di non essere un euroentusiasta pur volendo mantenere il Regno Unito nell’Unione.

Il gruppo ECR ha poi conservato un trattamento di favore da parte dei gruppi mainstream ed è stato incluso nella ripartizione degli incarichi, anche se al suo interno ci sono delegazioni, tra cui quella italiana e polacca, su posizioni non meno controverse di delegazioni incluse in I&D.

È ovvio quindi che pesi massimi come Lega e Fidesz, che per varie ragioni non vogliono o non possano stare nel PPE, non vogliano nemmeno rimanere ai margini. Se raggiungono un accordo con i polacchi di Diritto e Giustizia (di gran lunga la più grande delegazione dentro ad ECR), possono diventare il perno di un nuovo gruppo che può ambire a diventare il terzo o il quarto per dimensione, con cui anche popolari e socialisti dovranno fare i conti.

D’altro canto, se l’operazione del nuovo gruppo dei sovranisti andrà in porto, i partiti mainstream dovranno forse attenuare la loro diffidenza verso chi bussa alla loro porta. E se alla porta di S&D, come emissario dei 5 Stelle, dovesse bussare non Beppe Grillo o Luigi Di Maio, ma l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sarebbe ancora più difficile tenerla chiusa. Alla fine, Salvini e Meloni potrebbero ritrovarsi nella stessa casa europea (non è detto che la seconda sia contenta, ma dovrà farsene una ragione). Potrebbe andare così anche tra 5 Stelle e PD.

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