Oggi il Senato deve votare la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (per gli amici, Nadef). Nell’anno della pandemia, questo rito collettivo è al contempo ancor più inutile e ancor più interessante.

Inutile, perché l’incertezza (sull’evoluzione dei contagi e sull’arrivo di un vaccino o di una terapia) è ancora più alta degli anni “normali”. Con il rischio di una seconda ondata di pandemia, la stima di un calo del Pil del 9 per cento nel 2020 rischia di essere troppo ottimistica, malgrado il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri sostenga che le previsioni già scontino uno scenario pandemico deteriorato durante l’autunno e l’inverno.

Le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale sono più pessimistiche di quelle del governo italiano, sia per la profondità della caduta del Pil nel 2020 (-10,8 per cento), che per la ripresa meno vigorosa del 2021 (+5,2 per cento).

Interessante, perché questo è il primo documento ufficiale dove viene scansionato l’utilizzo dei fondi europei Next Generation Eu, che in Italia chiamiamo Recovery Fund, sia sussidi che prestiti. Nella Nadef si formulano quindi ipotesi di impatto, transitorio e strutturale, di tale processo, che ci accompagnerà sino al 2026.

Ormai da lustri, cioè da quando esiste questo documento, la liturgia non cambia: la posizione fiscale resta espansiva nel primo dei tre anni dell’orizzonte temporale di previsione, poi dal secondo, o meglio ancora dal terzo, ecco che si parte con l’ottimismo e via, verso i verdi pascoli della Nuova Era. Anche stavolta, pur nella peculiarità della situazione, è andata così.

C’è una regola aurea: quando la crescita del Pil nominale supera quella del costo medio del debito, il rapporto debito-Pil si riduce. Con un costo medio dello stock di debito pubblico italiano arrivato intorno al 2 per cento, il Pil nominale deve quindi scavalcare un’asticella apparentemente non proibitiva.

Riuscirà il nostro paese a superare questa asticella o cercherà di passarci sotto, gridando all’austerità ed ai calcoli europei dell’output gap “sbagliati con dolo”, che ci impediscono di fare il deficit “necessario” a innescare il leggendario moltiplicatore che genera crescita miracolosa dalla spesa pubblica?

Come che vada, Gualtieri segue le orme dei predecessori nel profilo temporale dei nostri conti pubblici. Andrà meglio, ma più avanti. Al netto del “rimbalzone” del 6 per cento del Pil reale previsto per il 2021, il calo del nostro stock di debito dovrebbe prendere slancio dal 2022, con crescite nominali del Pil di ben il 5,1 per cento, e nel 2023, del 3,7 per cento. Il tutto però solo grazie all’impatto delle “rate” del Recovery Fund.

Nel più lungo periodo, però, conterà innalzare il tasso di crescita potenziale del Pil (la “pendenza”, oltre che il “livello”), e realizzarlo. Altrimenti, quando gli steroidi del Recovery Fund saranno venuti meno, ci sarà un pesante down che potrebbe anche avvicinarci al baratro, vista la quantità di debito che andremo ad assumere (verbo che non uso a caso, data la dipendenza della politica dal deficit e dal pensiero magico del moltiplicatore) nei prossimi anni.

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