Doveva essere il voto che spaccava il paese e il governo, quello per referendum ed elezioni regionali, e invece un po’ a sorpresa ha ricomposto entrambi. La campagna più populista, per il taglio dei parlamentari, si chiude come era prevedibile: stravince il Sì, anche se un 30 per cento dei votanti si è opposto, in un impopolare sforzo di difendere la democrazia rappresentativa. Eppure, il vero risultato di questa doppia consultazione è che l’onda antipolitica sta finendo: il taglio delle poltrone è l’apice di un fenomeno ormai esaurito.

Lo si capisce dalle parole di Luigi Di Maio, non più capo politico del Movimento 5 stelle, che commenta soltanto i risultati del referendum e non quelli delle regionali, come sempre disastrosi a livello locale. Di Maio se la prende con «forze non meglio identificate» che volevano usare il referendum «per colpire il governo o anche il sottoscritto».

Scopriamo così che non era un voto per cambiare la Costituzione, ma per decidere chi comanda nel Movimento, che il Sì serviva a Di Maio per cercare di tornare al vertice, al posto del reggente Vito Crimi, grazie anche alla nuova battaglia per tagliare gli stipendi ai parlamentari superstiti, annunciata come i sequel di quei film che incassano bene nei primi giorni di programmazione.

E così, con la riforma costituzionale degradata a strumento per lotte di corrente in vista del congresso del partito, possiamo considerare chiusa la fase populista dei Cinque stelle, ormai avvitati in un reticolo di procedure indecifrabili per le persone normali (la sindaca di Torino, Chiara Appendino, dopo la condanna in primo grado per falso ideologico si sospende dal Movimento ma resta in carica in comune…).

A livello locale, anche a dieci anni dal debutto, i Cinque stelle non riescono a costruire una classe dirigente credibile, perdono sempre, anche in Liguria dove sostenevano Ferruccio Sansa assieme al Pd. Restano i collettori di un voto di protesta che non mancherà mai, ma poco altro.

Anche l’altro blocco populista vede il finale della sua breve stagione: la candidata della Lega Susanna Ceccardi non riesce a conquistare la Toscana, così come in gennaio Lucia Borgonzoni aveva fallito in Emilia Romagna, nonostante ci fosse una reale possibilità di vittoria per il centrodestra in entrambe le regioni.

Il segretario Matteo Salvini non ha più nulla da promettere: ha spinto il partito all’opposizione un anno fa per preparare l’assalto finale a palazzo Chigi, da allora non ha ottenuto un solo successo.

L’espansione al sud è fallita, quella nelle regioni pure, la gestione del suo partito è oggetto di poche analisi politiche e molte inchieste penali per la gestione dei fondi pubblici, il governatore più salviniano, Attilio Fontana in Lombardia, deve ancora spiegare il conto in Svizzera con 5 milioni.

In Veneto la lista del presidente Luca Zaia ottiene oltre il 51 per cento, quella ufficiale del partito salviniano meno del 15: l’amministratore locale che non ha ottenuto l’autonomia promessa al tempo del referendum del 2017 ma ha gestito in modo efficace la pandemia surclassa il segretario nazionale che ha abbandonato l’identità territoriale in nome delle battaglie sovraniste anti-immigrati e che sul coronavirus ha sostenuto ogni tesi e quella contraria.

Forse è inevitabile che, all’afflosciarsi del momento populista, svanisca anche l’illusione di Matteo Renzi di tornare rilevante come campione di un establishment ostile ai compromessi fatti dal Partito democratico per governare assieme ai Cinque stelle.

Italia viva non esiste, ha imposto un candidato debole al centrosinistra in Toscana, Eugenio Giani, che ha rischiato di perdere. In Puglia ha schierato Ivan Scalfarotto con il solo obiettivo di far perdere il candidato del centrosinistra, Michele Emiliano, e ha preso meno del 2 per cento.

Le cose serie

Cosa resta? Un parlamento più piccolo, dalla prossima legislatura, ma soprattutto si afferma una politica diversa da quella della stagione populista, una politica placida come uno dei vincitori, il segretario del Pd Nicola Zingaretti, pragmatica come Luca Zaia, molto più coerente con l’eloquio farraginoso dell’avvocato Giuseppe Conte che con le scorribande social di Salvini o dei Cinque stelle. Conte è un altro che esce tranquillo da queste elezioni: rimarrà a palazzo Chigi ancora parecchio.

Con il risultato del referendum archiviamo il decennio dell’antipolitica. Ora possiamo tornare a occuparci di cose serie, come la gestione dei fondi in arrivo da Bruxelles o la pandemia che sta per registrare la milionesima vittima a livello mondiale

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