I rischi che Emmanuel Macron corre alle elezioni di oggi, ma ancora di più quelli che correrà tra due settimane, sono in un certo senso frutto del suo successo.

Nel 2017 ottenne per sé il ruolo di presidente e poi una larga maggioranza parlamentare per il suo partito grazie a una sequenza incredibilmente fortunata di circostanze che indebolirono le due forze politiche protagoniste della lunga fase bipolare post-gaullista e lo collocarono al centro della scena contro la leader dell’estrema destra, Marine Le Pen.

Vinse praticamente da solo (con l’unico appoggio del centrista François Bayrou) e ha avuto quindi poi contro tutti i partiti preesistenti; i moderati che aveva spiazzato e gli estremisti che aveva battuto. Vinse tutto (presidenza, maggioranza parlamentare e governo), grazie a regole istituzionali iper-maggioritarie ammirate a singhiozzo in Italia, con il sostegno del 25% dell’elettorato. Poteva rivelarsi il successo effimero dell’outsider, dovuto alle circostanze. Invece, ha prodotto una drastica ristrutturazione del sistema politico.

L’ambizione

Per coltivare l’ambizione del secondo mandato avrebbe dovuto trattenere almeno tutto l’elettorato liberale e riformista che aveva sottratto a socialisti e repubblicani, usando gli ampi poteri messi nelle sue mani dalle istituzioni della Quinta Repubblica. Anche i sondaggi più sfavorevoli degli ultimi giorni confermano che ci è riuscito.

Quello che forse non aveva messo nel conto è lo svuotamento pressoché totale dei due partiti di centrodestra e centrosinistra. Cinque anni di “Macron solo al comando” e di “tutti contro Macron” hanno da un lato stabilizzato il suo consenso centrista, dall’altro hanno macinato a vantaggio di chi lo ha sfidato da posizioni più radicali.

Marine Le Pen ha stemperato i toni perché ha capito che questa è la sua vera chance per uscire finalmente dal “ghetto paterno”, allargare il campo e vincere.

Usando questa tattica, aveva corso il rischio di essere superata da Éric Zemmour, che ne aveva approfittato con una campagna contro “l’africanizzazione e l’islamizzazione della Francia”. Poi l’invasione dell’Ucraina ha messo in difficoltà il giornalista super-estremista che sognava “un Putin francese”.

Le Pen ha dovuto buttare un milione di volantini già stampati che la ritraevano a stringere la mano del presidente russo, ma non ha perso tempo per congratularsi con il premier ungherese un minuto dopo l’ennesima vittoria elettorale. “Localismo contro globalismo, protezione contro deregolamentazione, sovranità della Francia contro Unione Europea” dice a un largo pubblico conquistato dalla retorica nativista divenuta egemone. E si concentra sul caro vita perché non ha più bisogno di ricordare in modo truce cosa pensa degli immigrati.

Nel tentativo di rincorrerla su quel terreno, la candidata dei Repubblicani, Valérie Pécresse, si è arenata al 5% nei sondaggi.

Sempre meglio della socialista Anne Idalgo (al 2%), surclassata anche dal verde Yannick Jadot (5%), oltre che da Jean-Luc Mélenchon, in ascesa nelle ultime settimane (17%) ma comunque stimato al di sotto del risultato del 2017 (19%). I suoi temi non sono cambiati. Mirabolanti promesse di redistribuzione (in pensione a 60 anni, salario minimo per decreto a 1400 euro netti) e democrazia diretta (referendum propositivi, revoca popolare dei parlamentari), insieme alla versione goscista del sovranismo (una Francia non allineata, la Nato organizzazione inutile).

L’agenda liberal-riformista

Macron, naturalmente, ripresenta con orgoglio la sua agenda liberal-riformista su Europa, formazione, impresa, protezione sociale e meritocrazia, ambiente e autonomia energetica ... anche attraverso la costruzione di nuove centrali nucleari (già, perché la Francia ha continuato a investire sull’innovazione in questo settore che copre, a basso costo, il 70% della produzione di energia elettrica nazionale, quasi non usa fonti fossili per il riscaldamento delle abitazioni e non dipende dal gas russo).

Macron non parla solo ai ricchi, parla però soprattutto agli ottimisti e ai soddisfatti. Lo dice anche la scenografia con fuochi d’artificio della sua Convention.

Un primo pericolo per lui è che tra queste categorie sia troppo alta l’astensione, magari motivata dall’aspettativa di un risultato già scritto. Il secondo pericolo è la confluenza degli insoddisfatti di ogni fronte sulla sua antagonista.

Il voto di oggi non dirà niente di definitivo. Farà comunque capire quanto la realtà è vicina ai sondaggi, quanto è quindi alto il rischio per l’inquilino dell’Eliseo di subire uno sfratto, per l’Ue di trovare al suo posto una leader fino a ieri entusiasta di Putin e alleata di Orban.

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