Cos’è la politica? Organizzazione del potere, certo, lavoro di persuasione, si spera, ma soprattutto una gara fra interpretazione dei fatti. Lasciando da parte la post-verità di grillina memoria, il lavoro politico consiste nell’identificare problemi oggettivi di una comunità e guidarla verso un futuro migliore. Come già riconosciuto da Max Weber, si tratta di un processo profondamente scientifico, nel quale la tentazione di subordinare conoscenza all’interesse immanente di questo o quel potere è sempre forte.

Questa prossimità fra ricerca e politica è abusata dalla notte dei tempi. Molte critiche le sono state mosse, soprattutto in America, dove l’ecosistema di università, think tank e istituti a Washington ancora scontano il peccato mortale di aver sostenuto, piuttosto che contestato, gli entusiastici interventi in Vietnam e Medio Oriente. Ma se la politica è organizzazione del potere, allora essa non può esimersi dal compito di gestire la potenza delle idee. Accettare questa responsabilità non è un lusso in una fase storica dominata dalla complessità e dalle unforseen consequences (anche questa espressione fortunata nel contesto iracheno).

Il caso tedesco

Informazione e scienza ci servono per comprendere le crisi del secolo, iper-oggetti talmente complessi da risultare fisicamente inconcepibili secondo il filosofo Timothy Morton. Proprio per questo non possono essere subordinate all’autorità politica – il vero paradosso, forse, consiste nel fatto che per sfuggire da questa subordinazione, scienza e politica debbano abbracciarsi, contaminarsi e influenzarsi a vicenda.

In Germania, la patria di Weber, l’arte del governo sarebbe inconcepibile senza il contributo scientifico dato dalle fondazioni politiche, think tank partigiani i cui ricercatori sanno che l’unico modo per aderire ai più rigorosi standard scientifici è necessario indossare i colori della propria parte politica senza vergogna né minimizzazioni.

Le fondazioni Konrad Adenauer, Friedrich Ebert e Heinrich Böll portano i nomi di leader di partito e di protesta e non fanno mistero di rivolgersi soprattutto ai propri partiti di riferimento. Nella mia esperienza berlinese ciò non mi ha impedito di rivolgermi a esperti di tutti e tre gli istituti, come d’altra parte fanno giornalisti, leader e attivisti di tutta Europa.

Che chi lavora in think tank legga il mondo da una prospettiva elementarmente politica non sorprende ed è anzi accettato come sintomo di trasparenza. È lo stesso motivo per il quale burocrati e ricercatori di istituti statali autorizzano i propri membri all’attivismo di partito, se compatibile con i codici deontologici.

In Italia, per vizio o tradizione, grandi realtà comparabili si sono inabissate con la fine della prima repubblica. Non solo, i think tank imparziali di casa nostra come Iai e Ispi sono sottofinanziati e vittima di un ciclo mediatico poco clemente nei confronti di analisi pazienti e soppesate. Ciò ha permesso la proliferazione di sedicenti think tank che più che istituti dedicati alla ricerca sembrano lugubri estensioni di questo o quel capobanda, un esercito di ex da sempre disinteressati all’approfondimento ma in cerca di conforto intellettuale dopo l’inevitabile dipartita politica.

Ne consegue un’allergia al termine “think tank” che negli scorsi giorni è riemersa grazie alle attività di conferenziere a pagamento di Matteo Renzi in Arabia Saudita. Anche nelle pagine di questo giornale sono stati lanciati anatemi di corruzione e appelli a regolamentare, finalmente, quel sottobosco di fondazioni e istituti nel quale anche eccellenti giornalisti come quelli di Open Polis hanno difficoltà a districarsi.

A tal proposito posso solo aggiungere un sonoro e inequivocabile assenso. Troppi in italia scelgono di annoverarsi fra scienziati, ricercatrici e analisti che decidono di mettere a disposizione della loro comunità politica le proprie capacità professionali. La ricerca è sempre politica. Quello che serve ora sono una legislazione seria e soprattutto una legittimazione dei think tank, politici o meno, e una separazione mediatica delle loro attività dalla “corruzione indiretta” operata da individui che non hanno nulla a che vedere con la scienza.

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