C’è sempre un senso politico, magari non intuitivo, nella scelta del premio Nobel per l’economia che spiega perché vengono scelti certi economisti proprio in un certo anno, magari decenni dopo che i loro contributi sono diventati pilastri della ricerca.

Il contesto della pandemia e della sfida di prendere decisioni di politiche pubbliche sulla base di dati difficili da decifrare, perché influenzati da molte variabili non tutte osservate, rende perfetto il tempismo del riconoscimento assegnato a David Card (Berkeley), Joshua Angrist (Mit) e Guido Imbens (Brown). Card ha firmato i suoi lavori citati dal comitato con un altro economista super star, Alan Krueger, che però si è suicidato nel 2019.

Senza laboratorio

In modi diversi e complementari, Card, Angrist e Imbens hanno permesso all’economia di avvicinarsi al rigore delle scienze naturali che insegue da quando ha abbandonato le questioni di principio della filosofia morale per ibridarsi con la statistica, la matematica e infine l’econometria. Nelle altre scienze, esistono laboratori dove si possono testare teorie per vedere cosa succede e misurare gli effetti.

In economia è molto più complicato, tolte piccole cose (tipo esperimenti per studiare i processi decisionali degli individui), è impossibile costruire esperimenti di politiche pubbliche come quelle sul lavoro, sull’istruzione o sulla salute.

Sia perché ci vogliono anni, spesso tutta una vita, per misurarne gli effetti, ma anche per ragioni etiche (infatti gli esperimenti randomizzati controllati, che usano persone come cavie, si fanno soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove gli standard sono più elastici).

Il salario minimo

A inizio anni Novanta Card e Krueger sembrano superare questo ostacolo all’apparenza insormontabile, e lo fanno in uno studio famoso sul salario minimo, altro argomento caldo in questo momento (c’è una direttiva europea, un dibattito negli Stati Uniti, e perfino in Italia).

La teoria convenzionale predice che con un salario minimo più alto, le imprese impiegheranno meno lavoratori: prima dell’aumento, infatti, già usavano la quantità di lavoro che massimizzava i loro profitti (uguali a zero, in concorrenza perfetta). Dopo l’aumento, per non subire perdite dovranno ridurre la domanda di lavoro.

Card e Kruger hanno l’intuizione di studiare gli effetti sul mercato del lavoro di un aumento del salario minimo in zone del New Jersey al confine con la Pennsylvania: non c’è ragione per pensare che territori così vicini abbiano esigenze di mercato diverse, dunque si può ipotizzare che le uniche differenze osservabili nella domanda di lavoro dopo la variazione del salario minimo nel New Jersey siano spiegate da questa differenza (è un po’ più complicato di così, ma non di molto). In pratica, se si trovano due gruppi di persone uguali in tutto tranne che per una variabile osservabile, allora si può stimare l’effetto di una variazione in quella variabile. I risultati dello studio dicono che l’occupazione non diminuisce con un salario minimo più alto.

Le possibili spiegazioni stanno nel potere di mercato delle imprese, che quindi non operavano in concorrenza perfetta: forse il salario minimo era così basso che alcuni individui preferivano non lavorare ed entrano nel mercato del lavoro dopo l’aumento, oppure le imprese traformano i costi aggiuntivi in prezzi più alti perché sanno che i loro clienti non hanno alternative che pagare di più.

Questione di trattamento 

Il principale problema di questo tipo di ricerche è la loro generalizzabilità: siamo sicuri che quanto osservato in New Jersey valga anche altrove? Oppure c’è qualche aspetto che ci sfugge e che è specifico di quella storia? Angrist e Imbens hanno ideato un metodo econometrico permette di rispondere, almeno in parte, a questa domanda. E cioè di studiare l’effetto dell’aumento del salario minimo non sul mercato del lavoro in aggregato, ma proprio sulle persone (e le imprese) che sono toccate dalla riforma.

Angrist e Imbens si pongono il problema di misurare l’effetto di un “trattamento” (cioè dell’intervento che distingue un gruppo dall’altro) soltanto sulle persone che ne sono state effettivamente influenzate, e non sull’intera popolazione potenziale. Per riuscirci bisogna prima stimare la probabilità che un individuo risulti “trattato” e poi, tenendo conto di questo, stimare l’effetto del trattamento.

Nell’esempio citato dal comitato del Nobel: l’effetto di un anno aggiuntivo di scuola sul reddito in una certa popolazione si può calcolare in media, ma quello che a noi interessa è di quanto aumenta il reddito dei ragazzi che effettivamente hanno studiato un anno di più, non degli altri.

Se l’obiettivo del comitato del Nobel è usare il proprio potere culturale per influenzare quantomeno l’agenda di discussione e per garantire un palcoscenico planetario – e consulenze milionarie ai vincitori – allora il messaggio di quest’anno non poteva essere più chiaro: abbiamo capito che i dati sono tutto nelle grandi sfide di politica pubblica, come quelle sperimentate durante la pandemia.

E’ ora che anche il grande pubblico si faccia un’infarinatura di qual è il modo contemporaneo di raccoglierli e, soprattutto, leggerli.

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