I giornali non amano dare buone notizie, hanno la fama di vendere poco. Ma per una volta dobbiamo fare un’eccezione, perché il sottosegretario agli Affari europei Vincenzo Amendola ha annunciato la liberazione di Ikram Nazih. E’ una vicenda che, insieme ai nostri lettori, ci siamo presi molto a cuore in un momento in cui sembrava interessare poco, perché il tema politico era stato sollevato soltanto dalla Lega.

Una giovane 23enne con doppia nazionalità, italiana e marocchina, che scopre in aeroporto a Marrakech di essere stata accusata di blasfemia per un post satirico a sfondo religioso pubblicato due anni fa per quindici minuti sul suo Facebook.

Poiché il Marocco non ha fama di paese particolarmente integralista, come sanno i tanti turisti italiani che lo frequentano, era chiaro che la vicenda giudiziaria avesse un risvolto politico, forse legato allo scontro che oppone Rabat alla Spagna e all’Unione europea in generale sul fronte dei migranti a Ceuta, l’enclave spagnola, o sulle dispute territoriali sul Sahara occidentale.

Come in molti casi simili, dalle autorità filtra sempre un certo fastidio quando i giornali e l’opinione pubblica si occupano del caso e sollecitano una pronta risposta: lasciateci lavorare, dicono. In questo caso c’è stata una significativa mobilitazione dal basso, in pochi giorni la petizione che abbiamo lanciato come Domani su Change.org ha raggiunto oltre 50.000 firme di persone preoccupate per Ikram e per il silenzio che circondava la sua condizione.

Abbiamo visto con il caso di Patrick Zaki, incarcerato in Egitto dal 7 febbraio 2020 sempre per alcuni post Facebook, quanto è frustrane ma necessario scandire i tempi dell’ingiustizia con le poche, pacifiche, armi a nostra disposizione: quelle della parola, cartacea e soprattutto digitale. Ikram è anche cittadina italiana e la sua detenzione in Marocco era doppiamente grave.

La sua liberazione arriva come un piccolo segnale di speranza in giorni molto cupi nei quali il cinismo rischia di soppiantare il desiderio di giustizia che per anni ha animato tanti attivisti in paesi difficili e anche coloro che ne raccontavano l’impegno nei media. Di fronte al crollo di Kabul, la rassegnazione e lo sconforto sono state le reazioni più diffuse: le armi e gli aiuti miliardari hanno fallito, gli avvertimenti del movimento pacifista sono stati ignorati, i Talebani hanno prevalso e ora non c’è modo di condizionarne le feroci ambizioni.

Il caso di Ikram dimostra invece che difendere i diritti, in patria e ogni volta che è possibile anche all’estero, è l’essenza e la missione delle nostre democrazie, non c’è relativismo culturale che tenga, nessuna indulgenza verso gli altrui costumi e consuetudini può giustificare l’abuso, specie se per punire un crimine senza vittime quale è la blasfemia.

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