I risultati di queste elezioni parlano chiaro, su chi vince e chi perde all’interno del campo cosiddetto progressista. C’è il Pd, che ha puntato sull’europeismo, la responsabilità (agenda Draghi), e la difesa dei diritti civili, e ha preso poco più di cinque milioni di voti, uno dei peggiori risultati della sua storia.

E c’è il Movimento Cinque stelle, che ha intravisto il vuoto lasciato sulle questioni economiche e sociali, e per opportunismo o forse semplicemente grazie all’intuizione del suo leader, ha recuperato in pochi mesi una buona fetta di consenso che sembrava perso, rischiando addirittura il sorpasso.

Bipolarismo o tripolarismo

Davanti a questo risultato, il Partito democratico si trova ad un bivio: può scegliere di restare nella narrazione del bipolarismo che ha contraddistinto questa campagna elettorale, con le destre di Meloni, Salvini e Berlusconi da una parte, e un polo di centrosinistra dall’altro.

Oppure può ultimare la sua transizione verso il centro dello schieramento politico, facendo prevalere la sua anima liberale e liberista, portando così l’Italia verso un tripolarismo “alla francese”.

Nel primo caso, il Pd non può transigere dal ricostruire l’alleanza con Giuseppe Conte, che ha saputo intercettare il malcontento “di sinistra” del paese.

Nel secondo caso il Pd costruirebbe invece un polo “macronista”, ricucendo con Carlo Calenda e Matteo Renzi. I temi unificanti sarebbero a questo punto l’europeismo, la crescita economica, la difesa dei conti pubblici, e ovviamente i diritti civili. 

O una cosa, o un’altra. Stare nel mezzo ha prosciugato il l’elettorato del Pd.

Un paese di destra?

L’Italia ha votato a destra perché è un paese spaventato, con un altissimo tasso di disoccupazione, dove i salari sono fermi da trent’anni, e le ricette proposte dai governi sostenuti dal Pd (Monti, Letta, Renzi, Draghi) non solo non hanno dato risposte a queste preoccupazioni, ma spesso le hanno generate.

Un recente sondaggio del Centro Italiano Studi Elettorali della Luiss mostra che in Italia c’è una fortissima maggioranza trasversale a sostegno di battaglie economico-sociali “di sinistra”.

L’84 per cento degli italiani è favorevole all’introduzione di un salario minimo per legge; il 79 per cento è per ridurre l’età pensionabile; sempre il 79 per cento è per ridurre le differenze di reddito tra chi ha redditi alti e redditi bassi; il 78 per cento è d’accordo nel mantenere la progressività fiscale; il 67 per cento è d’accordo nell’aumentare la tassa di successione sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro; il 66 per cento pensa che sia necessario dare la priorità alla protezione dell’ambiente, anche a scapito della crescita economica.

La destra di Meloni, pur non essendo a favore di alcuno di questi temi, è riuscita furbescamente a farsi passare come la “destra sociale” che non è, recuperando voti nel ceto medio impoverito.

Non è un caso che la misura numero uno del suo programma sia un emblema di questa tradizione: aumento degli assegni familiari, riduzione dell’Iva sui prodotti per la prima infanzia, sostegno (non meglio specificato) agli asili nido e alle scuole materne.

Il Pd invece non ha voluto – o forse potuto – intestarsi alcuna battaglia in questo senso. Emblematica l’intervista che Emanuele Fiano, candidato (sconfitto) del Pd a Sesto San Giovanni contro Isabella Rauti, ha dato a Radio Popolare prima del voto. Nessuna menzione dei temi sociali o economici, ha  però parlato a lungo del pericolo che Meloni rappresenta per i diritti e la collocazione dell’Italia in Europa. Una strategia elettorale che è risultata – numeri alla mano – drammaticamente perdente.

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