Il Buio Oltre la Siepe è il titolo (italiano) del famoso romanzo di Harper Lee: una metafora della paura dell’ignoto che ci prende quando osiamo guardare oltre la siepe che cinge il nostro ambiente e la sua sicurezza. Niente di più preciso per descrivere il timore e il disorientamento con cui oggi guardiamo al futuro prossimo delle economie occidentali.

Istituzioni finanziarie, centri di ricerca e agenzie governative stanno producendo un diluvio di analisi e scenari che possono essere raggruppati in tre categorie: il “soft landing”, implicito nelle previsioni delle banche centrali, in cui un graduale aumento dei tassi riporta l’inflazione in linea con l’obiettivo del 2 per cento e la crescita che non si discosta troppo dal trend; la “stagflation” , ovvero un periodo di più anni con inflazione stabilmente superiore al 2 per cento e crescita sotto trend; e la “recessione” in cui l’inflazione continua ad accelerare costringendo le banche centrali a un forte aumento dei tassi che provoca una caduta dell’attività economica. Nessuno dei tre scenari può essere escluso: segno della straordinaria incertezza dei tempi.

Non sappiamo come, quando e con quali conseguenze finirà la guerra in Ucraina. Le analisi economiche sono inattendibili di fronte a shock inattesi come Covid, crisi energetica e guerra, prova ne sia che le Banche Centrali definiscono le loro politiche “data dependent”, che tradotto significa: la nebbia è così fitta che, invece di guardare avanti, tengono gli occhi incollati allo specchietto retrovisore.

Altrettanto inattendibili i riferimenti agli anni Settanta, poiché la struttura dell’economia globale è drasticamente cambiata, e le aspettative dei mercati, notoriamente volatili a seconda degli umori del momento.

La fine dell’inflazione bassa

In questo momento, l’approccio che ritengo più sensato è cercare di illuminare quel buio oltre la siepe, cercando di definire gli elementi che più caratterizzeranno le economie nei prossimi anni, o decenni, e immaginare le possibili implicazioni.  

Primo e più importante di questi elementi è la definitiva fine del ventennio di inflazione bassa e stabile che ha caratterizzato il mondo occidentale.

Le ragioni di questa discontinuità sono quattro.

Il rapido invecchiamento della popolazione, non solo nelle economie avanzate ma anche in quelle che hanno trainato la crescita nell’ultimo decennio, porterà a una riduzione globale dei risparmi e un aumento dei consumi privati e pubblici (legati alla domanda crescente di welfare).

La transizione ambientale e la riorganizzazione dei flussi energetici nel mondo che avrà un impatto duraturo sul costo dell’energia per unità di prodotto.

Verrà meno l’effetto deflattivo della Cina - fonte di beni di consumo e componenti a basso costo (e calmiere dei salari a livello globale) - alle prese con il trend negativo della crescita provocata tanto della crisi finanziaria/immobiliare quanto dal cambio di paradigma, da investimenti, infrastrutture ed esportazioni a domanda di consumi interni.

Il problema delle banche centrali

Infine l’indipendenza delle banche centrali trova un limite nell’opinione pubblica e quindi nella politica: contrasteranno l’inflazione con un aumento dei tassi ma mai fino al punto di provocare le profonde recessioni (e le conseguenti ondate di fallimenti e crisi finanziarie) che sarebbero inevitabili se si volesse riportare stabilmente la crescita dei prezzi sotto il 2 per cento (obiettivo che si sono autoassegnate), specie se l’inflazione è causata da shock strutturali da lato dell’offerta.

È quindi legittimo ipotizzare che possa emergere un nuovo equilibrio, caratterizzato da un’inflazione stabilmente più alta dell’1-2 per cento a cui siamo abituati: possiamo immaginare destinata a collocarsi fra il 3 e il 5 per cento.

Chi ci perde

Sarebbero diverse le conseguenze in questo nuovo equilibrio.

Il potere di acquisto dei salariati tenderà a ridursi, perché difficilmente potrà restare al passo del costo della vita (potere ridotto dei sindacati, specie in condizioni di crescita sotto trend; innovazione tecnologica sostitutiva del lavoro), con una prevedibile rottura della pace sociale, a sua volta fattore di rallentamento economico.

Il settore immobiliare sarà maggiormente colpito perché l’aumento dei tassi impatterà sul costo dei mutui rendendo l’onere degli interessi eccessivo per il reddito di molte famiglie e per molte società immobiliari, caratterizzate da un debito elevato, che non riusciranno a scaricarlo aumentando i canoni di affitto.

Probabile anche una redistribuzione di reddito a favore di quelle imprese che detengono sufficiente potere di mercato per aumentare listini e tariffe, a danno di quelle indebitate e quelle il cui valore risiede nelle aspettative di utili futuri.

Ma la prevedibile conseguenza più rilevante è sui debiti pubblici. I governi stanno affrontando il caro energia cercando di calmierarne gli effetti con sussidi e detassazioni: così facendo aumentano uno stock di debito già storicamente elevato per via del sostegno alle economie colpite dal Covid.

L’effetto sui conti pubblici

 Un’inflazione stabilmente più elevata da una parte abbatte il rapporto debito/Pil, aumentando il Pil nominale al denominatore e la pressione tributaria (aliquote e accise sono nominali), mentre dall’altro lo aumenta, facendo salire la spesa per interessi.

Poiché l’aspettativa è che le banche centrali cercheranno di mantenere i tassi reali il più possibile vicino allo zero per tutte le scadenze (oggi ampiamente negativi) l’effetto netto dovrebbe essere favorevole all’indebitamento dei governi.

Anzi, penso che la “repressione finanziaria” per aiutare i governi sia proprio una delle ragioni per attendersi che le banche centrali rinunceranno di fatto ai vecchi obiettivi della crescita dei prezzi al 2 per cento: venendo meno la prospettiva di una crescita sopra trend per riequilibrare il debito pubblico, l’inflazione è l’unica alternativa al rischio default. Vale anche per l’Italia che ha il costo del debito bloccato in media per 7 anni, pari alla durata del suo debito.

L’Italia e il debito

C’è un però: chi ha un debito elevato, come l’Italia, si ritroverà comunque esposto alle crisi per via del rischio di razionamento (ovvero mancanza di acquirenti in numero sufficiente) nel momento in cui emette nuovo debito per finanziare il deficit o rifinanziare il vecchio debito se in quel momento viene meno la fiducia degli investitori.  

Infine, un aumento stabile dell’inflazione avrebbe un impatto rovinoso sulla ricchezza delle famiglie italiane. Dall’ultima radiografia Banca d’Italia il 57 per cento dei quasi 11 miliardi ricchezza lorda era in immobili e terreni che non rendono perché utilizzati dai proprietari o affittati a canoni non indicizzati; 31 per cento in depositi bancari, riserve assicurative e fondi prevalentemente investiti a reddito fisso (per via di regolamentazione e bassa propensione al rischio) con rendimenti reali risibili o negativi nel nuovo equilibrio, e appena 12 per cento nel capitale azionario della propria impresa e in titoli (direttamente o indirettamente tramite risparmio gestito).

Uno scenario a lungo termine che credo sia realistico: meglio prepararsi.

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