Emanuela Orlandi è scomparsa quasi 38 anni fa e ieri – fosse ancora viva – avrebbe compiuto 52 anni. La sua scomparsa non è solo uno dei grandi misteri irrisolti del nostro paese, ma una vicenda in cui la stessa verità dei fatti è evaporata all'istante, nascosta e deformata in ogni modo possibile da chi sapeva. Attraverso menzogne, depistaggi e omertà, peccati condivisi tra i responsabili materiali di quello che Giovanni Paolo II definì subito un «rapimento» e pezzi delle gerarchie ecclesiastiche, che non hanno mai davvero collaborato con i giudici italiani. Che hanno provato per decenni (l'ultima archiviazione della procura di Roma è del 2015) ad afferrare un filo invisibile per capire cosa fosse successo nell'estate drammatica del 1983 che inghiottì la ragazza con cittadinanza vaticana, l'ultima di cinque figli di un mite impiegato della prefettura della Casa pontificia.

Video di Alessandra De Vita

Dopo 38 anni e decine di inchieste giudiziarie e giornalistiche, la certezza è una sola: il caso Orlandi fin dall'esordio appare viziato da deviazioni e inganni, costruiti con l'intento di nascondere i fatti dietro una coltre di nebbia fitta che con il passare del tempo - invece di diradarsi - si è fatta più impenetrabile.

I depistaggi da principio hanno cercato di allontanare gli investigatori da quella che verrà chiamata “pista interna”, quella che collega la sparizione con vicende oscure dello stato di Dio. Eppure le tracce disseminate erano molte: a cinque mesi dalla scomparsa della 15enne una relazione dei servizi segreti italiani definì il primo telefonista attendibile, l'Americano, «uno straniero appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale», mentre alcuni monsignori come Francesco Salerno segnalarono come la vicenda potesse «costituire un elemento di pressione su ambienti strettamente legati al sommo pontefice».

Gli inquirenti hanno trovato in Vaticano un muro insormontabile: le rogatorie internazionali per interrogare i cardinali e trovare prove sul destino della ragazza furono respinte al mittente, e nessun documento o segnalazione rilevante arrivò mai alla polizia nostrana (delegata alla indagini per competenza territoriale) dalla Santa Sede. Oltretevere negano persino oggi l'esistenza stessa di un fascicolo sul rapimento, nonostante alcune intercettazioni della vecchia dirigenza della Gendarmeria sembrano dimostrare il contrario.

Nessuna spiegazione è mai stata data sui rapporti tra Banda della Magliana e la vecchia dirigenza dello Ior di Paul Marcinkus, su quelli con Renatino De Pedis tumulato come un principe nella basilica di Sant'Apollinare, nessuna risposta sul motivo per cui misteriosi documenti apocrifi («del tutto falsi», dissero indignati in Vaticano) che segnalavano pagamenti per «l'allontanamento domiciliare» di Emanuela fossero conservati in armadi blindati dentro la città santa.

Una reticenza inspiegabile che per 38 anni ha alimentato dubbi e congetture nei media e nell'opinione pubblica. Un silenzio che sgomenta ancora la famiglia di Emanuela. La madre e i fratelli cercano ancora la verità, o almeno una tomba su cui poter portare un fiore.

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