La Commissione europea ha posto in pubblica consultazione le proposte di modifica alla disciplina temporanea degli aiuti di stato, introdotta lo scorso 19 marzo per sostenere l’economia a fronte della pandemia di Coronavirus.

L’allentamento delle norme sugli aiuti pubblici era prevista scadere il prossimo 31 dicembre ma sarà prorogata di sei mesi.

La finalità originaria era il sostegno alla liquidità delle aziende di fronte al collasso di fatturato causato dall’emergenza sanitaria. La proroga prevede la possibilità di contributi pubblici temporanei ai costi fissi non coperti dai ricavi, per evitare che il capitale d’impresa venga eroso o azzerato, oltre a disciplinare l’uscita in regime di mercato dello Stato dal capitale pubblico.

Per affrontare l’emergenza sono stati autorizzati sovvenzioni dirette, agevolazioni fiscali selettive, anticipi di cassa, prestiti agevolati pubblici, salvaguardie per le banche che canalizzano i prestiti pubblici alle aziende.

Tali misure ne hanno integrate altre, fuori dalla cornice degli aiuti di Stato e funzionali a mitigare l’impatto socio-economico della crisi, quali differimento di imposte e sussidi al lavoro a tempo parziale. Sono previsti anche indennizzi alle aziende per i danni causati dalla pandemia in settori ad essa particolarmente esposti, quali trasporti, ospitalità, pubblici esercizi. Ovviamente, tutti questi interventi devono basarsi su criteri di proporzionalità rispetto ai danni.

Idealmente, ma la misura non è stata sinora resa cogente, occorrerebbe distinguere tra aziende che sono entrate nella crisi sanitaria già in condizioni di dissesto, e quelle che invece erano vitali. Questo tema si porrà con forza quando la pandemia sarà alle nostre spalle ma già ora vi sono paesi, come Germania e Regno Unito, che hanno prorogato gli aiuti pubblici con maggiore selettività, ritenendo necessario spostare risorse verso la protezione dei lavoratori anziché dei posti di lavoro.

Chi paga

Il problema dell’allentamento dei vincoli europei agli aiuti pubblici è che le risorse necessarie ai sussidi vengono in misura preponderante dai bilanci nazionali, con tutto quello che ne consegue in termini di sostenibilità futura del debito pubblico. I fondi del Recovery Fund sono una misura parziale (e non certo a rapido esborso) per compensare la preponderanza dell’intervento nazionale.

In Italia, l’allentamento dei vincoli europei agli aiuti di Stato ha prodotto una reazione singolare ma in complesso prevedibile, vista la nostra storia degli ultimi lustri. Da più settori dello schieramento politico si è inteso che tale allentamento fosse l’alba di una nuova era, quella in cui gli stati intervengono a pie’ di lista su situazioni aziendali di dissesto, anche preesistente alla pandemia, avvalendosi del supporto della Banca centrale europea, che tuttavia mantiene i debiti pubblici nella loro dimensione nazionale, oppure rendendo permanente ed aumentando progressivamente la dimensione del Recovery Fund, sino alla creazione dei famosi eurobond.

Questo “equivoco” è stato alimentato da una retorica nazionale risarcitoria, come se il nostro paese dovesse essere indennizzato per oltre un decennio di “austerità”, più immaginaria che reale.

A conferma del vittimismo che domina il nostro dibattito pubblico, ricordiamo le lamentele per le rilevanti risorse destinate dalla Germania al sostegno di famiglie ed imprese, vissuto come ennesima forma di “concorrenza sleale” ai nostri danni, spesso proprio da chi invocava stimoli alla domanda interna tedesca come mezzo per sostenere e rilanciare anche la nostra economia.

Tra dissonanze cognitive e sindrome da accerchiamento, l’allentamento dei vincoli europei agli aiuti di Stato ha ridato fiato all’esaltazione dell’intervento pubblico nell’economia, con la mistica dello “stato imprenditore”, entità eticamente e razionalmente superiore in grado di scegliere quindi i settori vincitori dell’innovazione tecnologica, oltre che di tutelare le esigenze dei portatori di interesse (stakeholder) rispetto alla logica unidimensionale del profitto.

Poco importa che tale visione, degna di rispetto pur nella sua ingenuità ideologica, da noi corra il rischio di declinarsi in conservazione dell’esistente e non di incubatore del nuovo.

Le cause rimosse del declino

La causa principale della progressiva perdita di competitività del nostro paese è stata identificata, in modo intellettualmente pigro ma elettoralmente premiante, nella presenza dell’euro, che ci avrebbe impedito di attuare le svalutazioni competitive e di adeguamento ai fondamentali economici che in un ormai remoto passato ci hanno tenuto a galla.

La realtà è che la radice di tale declino risiede soprattutto nella cornice europea degli aiuti di stato. L’Italia, prima del mercato unico, mediante tali aiuti ha rinviato gli aggiustamenti del proprio sistema produttivo sprecando risorse fiscali e trovandosi infine incastrata in settori a prevalentemente basso valore aggiunto.

Riuscire a discernere tra conservazione dell’esistente e promozione del nuovo, tutelando al contempo le fasce di popolazione colpite dal cambiamento e promuovendo l’inclusione, è la metrica che distingue sistemi sociali sani da quelli in bancarotta, non solo economica.

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