Il Movimento 5 Stelle per come lo abbiamo conosciuto non esiste più. Quel movimento che ha visto milioni di italiani credere a Grillo e a una riscossa di popolo; quel movimento approdato in Parlamento sull’onda di un consenso in alcune aree del paese senza precedenti; quel movimento modellato da un uomo visionario e gestito da una società di marketing. Sogno o incubo che fosse quella esperienza si è chiusa lasciando campo a una costellazione di  ricorsi, espulsioni, minacce.

Che una deriva simile investa la forza uscita dalle ultime urne come il partito di maggioranza relativa dice parecchio sullo stato di implosione del nostro sistema politico.

In un saggio recente (Declino Italia, Einaudi), Andrea Capussela ripercorre le cause che di quel regresso sono state l’origine con i primi trent’anni dopo la guerra dove un “vantaggio dell’arretratezza” importando innovazioni e tecnologie ci ha fatto spiccare un balzo sul versante di crescita e produttività. A seguire una brusca frenata in ragione della scarsa concorrenza, di riforme mancate in settori decisivi, dalla formazione alla giustizia, sino al crollo di prestigio dell’autorità pubblica.

La tesi di fondo è una: supremazia della legge, nel senso del suo rispetto, e responsabilità politica sono strettamente legate. L’una dipende dall’altra, si sostengono e legittimano a vicenda, ma cosa succede se per qualche decennio partiti e schieramenti smarriscono ogni forma di democrazia al loro interno, compromettono regole elementari nella selezione di dirigenti e candidati, indeboliscono la tenuta di un’organizzazione affidando lo spirito di appartenenza a convenienze e contingenze del momento?

In quel caso può accadere che milioni di elettori perdano ogni soggezione verso élite percepite come incidenti della sorte o, peggio, mode transitorie. In questo senso esiste un rapporto tra crisi dei soggetti politici, calo della partecipazione alle elezioni e crescita della mobilità o volatilità del consenso.

Per capirci, lontani i tempi in cui si votava comunista, socialista o democristiano per la vita diventa pratico e frequente crociare sulla scheda il simbolo che meglio si intona alla stagione. E la transumanza di eletti da un gruppo all’altro è la rappresentazione ultima di un fallimento della politica e di parte delle sue élite.

Capussela ricorda i dati: dall’introduzione del maggioritario, 1994, la media di spostamenti per legislatura è stata di 124 parlamentari. Il picco nel quinquennio 2013-18 quando a cambiare casacca sono stati in 304 sui 945 eletti, nello specifico un terzo dei deputati con esempi di traslochi ripetuti, forma inedita di nomadismo istituzionale. Dietro questi numeri vi sono quel disarmo critico e quel primato di interessi personali e di carriera che nel medio tempo un’etica politica estirpano alla radice.

Quali sono, se vi sono, gli anticorpi da suggerire? Forse il più saggio è nel rinverdire la lezione di Vittorio Foa quando per descrivere il suo ‘900 spiegava ai liceali di Formia che i valori non si insegnano, si vivono.

La sfida sarebbe decidere di non uniformare il modo d’essere e operare dei partiti verso il basso, con processi di selezione di dirigenti e candidati appaltati a notabilati o centri di potere, e invertire piuttosto la tendenza.

Una riforma o rifondazione della partecipazione non è impossibile. Però chiede coraggio e ambizione assai distanti dal tirare a campare degli ultimi decenni.

Anche perché, come la parabola pentastellata dimostra, se vogliamo restituire significato e vigore al concetto di democrazia una piazza gremita e un santone trasportato a dorso di canotto non è detto siano la risposta giusta.

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