Tra i temi caldi del dibattito politico degli ultimi mesi spiccano la crisi del sistema sanitario pubblico e il rapporto pubblico/privato nella difesa della salute dei cittadini. Sono temi complessi e come tutte le cose complesse si prestano a semplificazioni eccessive e a proposte politiche fortemente caratterizzate dal punto di vista ideologico, ma poco capaci di incidere sui problemi.

Lo stato delle cose

Provo ad elencare alcuni dei punti che dovrebbero stare alla base di ogni ragionamento in proposito.

Uno: i costi della sanità sono sempre più alti. La crescita dell’età media della popolazione, l’avanzamento delle tecnologie diagnostiche e chirurgiche, le costose innovazioni farmacologiche, in particolare nella cura dei tumori, sono solo alcune tra le cause di questa crescita. Nel corso dell’ultimo anno la guerra in Ucraina, la crisi energetica e l’inflazione galoppante sono cadute come tanti macigni sulla bilancia della spesa sanitaria pubblica, rendendola quasi insostenibile non solo in Italia, ma in tutti i paesi europei che hanno un servizio sanitario a carattere universalistico.

Due: le strutture private (convenzionate e non) hanno una tale rilevanza, in termini di prestazioni ambulatoriali quanto di ricoveri ospedalieri, da rendere inimmaginabile la loro sostituzione con strutture pubbliche. Bisognerebbe costruire centinaia di nuovi ospedali e assumere decine di migliaia di nuovi operatori per poterle rimpiazzare. Gli investimenti necessari sono semplicemente impensabili per un paese che già investe in Sanità una quota del Pil nettamente inferiore a quella di molte nazioni europee.

Chi sostiene la necessità di una forte crescita degli investimenti in sanità dice cose irrealistiche per la semplice ragione che mancano i soldi e che non si saprebbe dove andarli a prendere nel caso in cui li si volesse recuperare da altri capitoli del bilancio statale.

Tre: volendo semplificare, il tema del privato in Sanità può essere suddiviso in due capitoli molto diversi tra di loro. Il primo è quello dell’esborso diretto da parte dei cittadini per l’acquisto di esami o di visite che il pubblico offre oggi con tempi di attesa inaccettabili e quindi, di fatto, non offre. Il secondo è quello del convenzionamento dei servizi sanitari regionali con grandi gruppi privati, che in Italia producono quasi il 20 per cento delle prestazioni sanitarie, con punte vicine al 25 per cento in Lombardia e Lazio.

Sempre in queste due regioni, i posti letto nelle strutture convenzionate sono rispettivamente il 38 per cento e il 51 per cento dei posti letto totali. Problemi diversi che devono essere affrontati con diverse strategie. Quattro: nonostante le strutture private debbano sottostare ad una serie di regole per ottenere il convenzionamento con le regioni, la loro libertà di manovra per quanto riguarda il tipo di prestazioni offerte (tendenzialmente le più remunerative) e le politiche del personale (maggiore elasticità dei contratti e forte integrazione dello stipendio dei medici con i proventi libero professionali) è nettamente superiore a quella delle strutture pubbliche. Nel complesso ci sono buone ragioni per affermare che, a parità di prestazioni, il privato costi allo stato nettamente più del pubblico.

Una traccia da seguire

Se si accettano queste premesse, l’unica strada percorribile resta quella di modificare la composizione della spesa sanitaria per cercare di dare risposte adeguate ai problemi di salute dei cittadini anche a finanziamenti invariati. Questo significa, tra l’altro, prendere sul serio le indicazioni che hanno dato nel 2017 il rapporto del Censis su “sanità pubblica, privata e intermedia” e nel gennaio di quest’anno il documento dell’Ocse su “Finanziamento della sanità in tempi di inflazione elevata”.

Innanzitutto sarà necessario reindirizzare i finanziamenti, favorendo la sanità pubblica a scapito di quella privata, con particolare attenzione ai settori più carenti e a quelli dove il pubblico riesce ad offrire prestazioni economicamente concorrenziali. Si dovrebbe inoltre contrattare con il privato la concessione di convenzioni verso un’offerta di prestazioni più adeguate per numero e qualità ai bisogni di salute della popolazione. Se è vero che la Sanità pubblica non può fare a meno di appoggiarsi al privato convenzionato, è altrettanto vero che senza i finanziamenti pubblici, gran parte del privato non potrebbe sopravvivere. C’è spazio dunque per ricercare un equilibrio più vantaggioso.

In secondo luogo, bisognerà domandarsi come si possa costruire anche in Italia quello che è noto come “Secondo pilastro sanitario” e che nei grandi paesi europei interessa una popolazione tra cinque e venti volte più alta che da noi.

Si tratta di sistemi su base istituzionale o volontaria, a carico dei datori di lavoro o dei cittadini, che si affiancano alle tutele di base offerte dal Sistema sanitario nazionale per garantire, a seconda dei casi, il rimborso delle spese dirette rimaste a carico del cittadino o l’accesso più veloce alle prestazioni. Sottolineo che non si parla qui solo di prodotti assicurativi privatistici, ma anche di strumenti complementari o sostitutivi fortemente controllati a livello centrale.

Lotta agli sprechi

Infine, resta un tema che ho già più volte affrontato e che anche l’Ocse inserisce tra le priorità, quello della qualificazione della spesa e della lotta agli sprechi. Rendere più efficaci prevenzione, diagnosi e cura significa occuparsi dei problemi anche ad un livello molto più periferico che coinvolge gli stessi cittadini, i medici e gli amministratori.

Bisognerà per esempio trovare un modo non punitivo per contrastare la medicina difensiva che ci costa diversi miliardi ogni anno. Bisognerà superare campanilismi consociativi e riconoscere a professionisti laureati come gli infermieri e i farmacisti la possibilità di fornire (a costi minori) prestazioni che oggi sono, solo per corporativismo, riservate ai medici.

Bisognerà ricondurre a livello della medicina generale molte delle visite specialistiche che si ripetono senza una vera ragione, anno dopo anno, nei pazienti con patologie croniche non complicate. Bisognerà evitare, seguendo le indicazioni di “Less is more”, che vengano richiesti esami i cui risultati non influenzeranno in alcun modo le scelte terapeutiche.

Non troppi decenni fa, per consentire l’introduzione sul mercato di un nuovo farmaco, la Norvegia richiedeva che se ne dimostrasse non solo l’efficacia, ma anche la superiorità sui farmaci che erano già disponibili. Non è detto che oggi, in un tempo di costi crescenti e risorse limitate, questa politica del secolo scorso non possa tornare a servirci da esempio. 

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