Il 25 aprile di ottant'anni fa si spense il flagello che aveva devastato l'Europa ed il mondo con una guerra che aveva provocato milioni di morti, profughi e popoli senza patria. Allora, fra il 1945 e il 1947, nel biennio della riflessione, le forze che avevano abbattuto il nazifascismo discussero di quel germe, così radicato negli ordinamenti sociali, politici ed economici. Si usò l’efficace espressione: “ciò che è avvenuto può ripetersi”.

Si poteva ripetere quel clima di tensione, di guerra e di scontro. Gli uomini che avevano sconfitto il nazifascismo scelsero la guerra fredda. Fu un guaio che non si trattò per una “pace fredda”. Perché i vincitori della guerra non avevano la stessa visione.

Da una parte c’erano i democratici, che volevano allargare il campo della libertà e della democrazia, dall’altra quelli che invece volevano allargare il campo di un regime autoritario, dispotico e fondato su un principio: che gli stati o le forze dei singoli stati non dovessero essere politicamente autonome ma rappresentative di uno Stato, l’Unione sovietica.

La vera frontiera fra il mondo occidentale e l’Est, era su questo punto: stati autonomi o reparti avanzati di uno stato estero, agenti del suo regime politico.

La guerra fredda non fu pace

La scelta della guerra fredda, e non della pace, portò alla diffusione di nuovi focolai di guerra. Nel 1950 esplose la guerra in Corea. Stalin aveva ricostituito, con il Cominform, il vecchio Comintern. Gli organismi sovranazionali perdevano sempre più il carattere di organismi per la ricomposizione e si trasformavano in luoghi per prove di forza.

La guerra fredda durò fino all’implosione interna del sistema sovietico. Alla fine degli anni 80, con la crisi strutturale dei regimi comunisti, serviva il coraggio di tornare a considerare il passaggio a una pace, pure fredda e graduale, ma che avesse in sé elementi di irreversibilità.

In questi ultimi trent’anni le risposte all’interno degli stati sono state diverse. Le classi dirigenti dell’Europa occidentale hanno creato la nostra grande esperienza politica dell’Unione, da un continente che per secoli era stato generatore di guerre, distruzioni e lotte fra i popoli. Ma la disgregazione della parte del mondo controllata dall’Urss ha generato un doppio movimento: uno manifesto, l’altro coperto ed occulto. Quel manifesto era il riconoscimento che la disgregazione del campo comunista dovesse coincidere con la creazione autonoma degli stati a cui era stato imposto il sistema sovietico.

L’operazione occulta, del resto tradizionale nel comunismo rivoluzionario, era agire sottotraccia: penetrare con proprie forze organizzate nelle istituzioni e nei partiti politici dei paesi, sia quelli che si staccavano che quelli del campo ostile.

Oggi dobbiamo affrontare il dubbio se all’interno delle istituzioni e delle forze politiche dei singoli paesi c’è qualcosa di oscuro, di non confessabile. Un rapporto sotterraneo con forze sovranazionali non dominabili da sistemi democratici.

In America il trumpismo non è solo materia di studio della pazzia individuale che si impossessa di un paese che per secoli ha difeso democrazia. C’è di più: il superamento del sistema democratico e la presa di coscienza che le forze del capitalismo non sono più integrabili con la democrazia. La democrazia non è più in grado di legare insieme istituzioni, forze sociali e forze politiche. Un’operazione che riguarda anche l’Europa. E qui torniamo a quell’ammonimento, “ciò che è avvenuto può ancora ripetersi”. È il punto dolente di questa riflessione: se nel nostro paese c’è, vive, e come si muove, una forza statuale esterna, dominatrice.

L’esempio del pacifismo sembra dimostrarlo. C’è quello di destra e quello di sinistra. Quello di destra ha un partito guida, la Lega, partito russofilo. A sinistra c’è un pacifismo, nei Cinque stelle, partito russofilo.

Russofili e trumpofili

Due partiti russofili sono dunque strategicamente ben collocati nel dopo Meloni. Il governo ormai è superato proprio perché la presidente non è stata capace di autonomizzare la destra sia dalla disgregazione democratica americana che dal riferimento russofilo nell'interno dell'Europa. Dall’altra parte, c’è un dopo Meloni collocato nello schieramento di alternativa, una forza che non è reazionaria di destra ma è oggettivamente anti europea.

Oggi l'intesa reale, politica, sostanziale, tra Trump e Putin è nel non volere un'Europa unita e forte che distruggerebbe i legami manifesti o occulti con le spinte alla disgregazione.

Serve un coraggioso atto di verità sul melonismo, cioè sul fallimento del nazionalsovranismo antieuropeo e reazionario. Il primo atto per l’alternativa richiede un’esplicita dichiarazione di chi vuol governare l’Italia europea. I partiti subalterni al trumpismo e al putinismo offrono prospettive disastrose. Oggi, non domani, si deve passare dalla guerra calda a una pace tiepida, accorta, vigilante. In questo 25 Aprile servirà una riflessione non formale sulla Liberazione contro il nazifascismo di ottant’anni fa, una spinta forte per l’integrazione europea, superando in Italia l’esperienza disastrosa, perché disgregante e al servizio di forze statuali straniere, del governo della destra.

L'Europa per noi oggi è patria, libertà, futuro di pace senza l'incubo di sbagliare, come nel biennio ‘45’-47, a scegliere la guerra fredda e non la pace. Putin sta già pensando al futuro assetto politico dell’Italia. Nel suo piano è già cominciato il dopo Meloni. Scommette su una forza della maggioranza e una dell’opposizione. La lunga durata delle due segreteria di Cinque Stelle e della Lega sono una curiosa coincidenza.

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