Leggiamo ogni giorno del ginepraio di screzi e contenziosi, di obiezioni e di proteste, rivendicazioni e denunce che corre tra governo e enti locali. Tra le vocianti critiche all’ultimo Dpcm, una di tono minore, lamentosa più che cruenta, riguarda il blocco dei trasferimenti tra comuni nei giorni di Natale. La configurazione territoriale, è stato detto da più parti, la varia dimensione dei 7.903 comuni italiani, la distribuzione della popolazione, la natura dei collegamenti e degli insediamenti, variano così tanto nelle diverse aree del paese che il divieto imposto genericamente a tutti i comuni ha effetti diversi, poco sensati e poco utili allo scopo. Non lo si può negare, è proprio così.

Si potrebbe allora indicare un obiettivo (ad esempio limitare gli spostamenti) e lasciare che ciascun ente lo realizzi secondo la sua natura e disposizione. Sarebbe un’ottima idea. Ha vari precedenti nei secoli. Va infatti inquadrata nella lunga storia dello stato moderno, e dei problemi che non sono mai stati risolti, né potrebbero mai esserlo in maniera definitiva.

È proprio dello Stato imporre uniformità, regolamentare, organizzare. Ma lo Stato deve dialogare con i poteri reali, i costumi, gli usi, dei vari territori, che uniformi non sono. Tra locale e nazionale si muove un pendolo mai stabile che ciascuna società, ciascuna epoca affronta con gli strumenti diversi.

Ora guardiamo l’atlante: la penisola italiana appare piccola e poco estesa, eppure, dalla caduta dell’impero romano e fino all’Ottocento non è mai stata governata sotto lo stesso scettro. Mai. Per secoli – millequattrocento anni! – si sono stratificati poteri,  ordinamenti, assetti economici, culture e lingue… , molti dei quali abbiamo ancora davanti agli occhi, per nostra fortuna e ricchezza. Lo scriveva Francesco Guicciardini nel Cinquecento: la mancata unificazione «l’ha conservata in quello modo di vivere che è più secondo la antiquissima consuetudine ed inclinazione sua». Ma giunti all’Ottocento non si poteva non farla quell’Italia unita. I tempi lo imponevano. Occorrevano strade, finanze, esercito e scuola, e sostegno agli scambi (quanti hanno presente che fino a metà Ottocento vigeva nella penisola una selva di misure diverse, lineari e di superfice, di liquidi, di pesi, ma anche di monete, oltre che di lingue e dialetti …?).

Unificazione dunque. Darle un assetto federale, o comunque regionale? Impossibile: ricalcando i vecchi regni, le regioni avrebbero funzionato come degli stati autonomi, molti con la loro vecchia corte (si badi: non è quello che si paventa oggi, con le autonomie regionali, il regionalismo differenziato e i presidenti che si atteggiano a “governatori”?). Garantire ampie autonomie comunali nell’ambito unitario? Ma questo è possibile in regni da tempo assoggettati alla stessa regola, come nel Regno Unito (che unito lo fu a forza…), o rispondenti a un comune spirito repubblicano, come gli Stati Uniti. In Italia il progetto c’era, e si procedette imponendo una uniformità, una omologazione alquanto rigida che oggi farebbe, anzi fa, gridare allo scandalo e che anche allora suscitò le resistenze dei vecchi notabili.

Così fu dato a tutti i comuni del regno lo stesso ordinamento, e fu loro imposto di iscrivere a bilancio delle “spese obbligatorie” per attuare tutto ciò che in tante parti non c’era affatto, strade, scuole, cimiteri, amministrazione, finanze, medici condotti (ospedali no, erano enti religiosi). Non mancarono le incongruenze, allora come oggi. Quanto ad esempio fu istituita una imposta sui fabbricati urbani si osservò che era iniquo imporre la stessa tassa ai piccoli, ricchi borghi medievali dell’Italia centrale e ai grossi e poveri insediamenti che costellavano il latifondo meridionale.  

Il Comune di Siena rappresentato come un sovrano assiso sul trono, nell'Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti

Insomma gli assetti istituzionali e territoriali devono combinare esigenze funzionali e rappresentatività democratica secondo un progetto esplicito e consono ai tempi. Un progetto unitario liberale c’è stato, ben chiaro, un progetto costituzionale repubblicano, dopo la dittatura, pure c’è stato: ribadite le ragioni unitarie («la repubblica, una e indivisibile...»), fu basato sulle autonomie, a partire da quelle regionali. Rappresentava una bella spinta ideologica che però non ha mai ben chiarito il nesso con il quadro unitario, e ha spesso duplicato gli ordinamenti in maniera confusa. Dopo che malcerte suggestioni federalistiche hanno reso subordinato e “sussidiario” il ruolo dello Stato, si è arrivati alla goffaggine della riforma del titolo V del 2001, ispirata a una furbizia politica, al farsi lo sgambetto tra “destra” e “sinistra” senza mai chiarire l’antico busillis, in che modo il piccolo dialoga col grande, a un grande nel frattempo divenuto ben più grande, di magnitudine europea e poi globale.

Se di fronte all’epidemia fattasi pandemia nemmeno gli stati sono in grado di strategie comuni, se alle frontiere alpine giocano ai quattro cantoni con le migrazioni sciistiche, non stupisce se i nostri governanti balbettano sulle frontiere comunali. Ma alle frontiere della storia premono ben altre urgenze, ed è necessario che i nostri governanti capiscano che è il momento di smettere di galleggiare nominando commissari e commissioni e di dire qualcosa, non di sinistra o di destra (“cos’è la destra cos’è la sinistra?”), ma di lungimirante e serio, di utile e di concreto. Non è facile, ma ci provino.

© Riproduzione riservata