La “seconda ondata” del Covid-19 ha avuto un impatto significativo anche nell’ambito lavorativo, come risulta dai dati comunicati dall’INAIL alla data del 31 ottobre, e ciò ha fatto tornare alla ribalta il tema della responsabilità del datore di lavoro per i contagi in azienda. Può essere utile fare il punto della situazione sul piano del diritto.

Il contagio come infortunio sul lavoro

Il decreto-legge “Cura Italia” (convertito in legge n. 27/2020) ha equiparato all’infortunio il contagio da Covid-19 del lavoratore, al fine di garantire a quest’ultimo il relativo trattamento da parte dell’INAIL.

L’equiparazione non è una novità. La circolare INAIL n. 13 dell’aprile scorso, che fornisce indicazioni attuative della norma del Cura Italia, spiega che dal 1995 le malattie infettive e parassitarie sono tutelate come “infortuni” («la causa virulenta è equiparata a quella violenta») e ricomprende nella «causa virulenta» anche la «infezione da nuovo coronavirus».

La circolare, chiarendo i criteri in base ai quali l’infezione si reputa avvenuta «in occasione di lavoro», distingue tra varie categorie di lavoratori. Da un lato, gli operatori sanitari, nonché i soggetti impiegati in «altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza», «esposti a un elevato rischio di contagio»: per essi vige «la presunzione semplice di origine professionale» del contagio, considerata «la elevatissima probabilità che (…) vengano a contatto con il nuovo coronavirus». Dall’altro lato, categorie diverse di lavoratori, per i quali non c’è correlazione tra attività prestata e contagio: «ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato», l’INAIL avvia un accertamento medico-legale, sul piano «epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale».

Quando il datore di lavoro è responsabile 

Dopo la norma del Cura Italia e la circolare attuativa è sorto il dubbio che la “presunzione” dell’origine professionale dell’infezione si traducesse nell’automatica responsabilità, civile e penale, del datore di lavoro. Così a maggio, con una nuova circolare (n. 22/2020), l’Istituto ha ribadito che non c’è nessun automatismo: il datore di lavoro risponde del contagio solo se viene accertata la sua responsabilità per non aver adempiuto a obblighi in materia di sicurezza sul lavoro e sia provato il nesso di causalità tra contagio e inadempienza.

Ma poiché le associazioni datoriali continuavano a fare pressione, in vista delle riaperture delle attività dopo il lockdown, chiedendo un apposito “scudo” da eventuali responsabilità, è intervenuto pure il legislatore: con la legge di conversione del decreto-legge “Liquidità” (l. n. 40/2020), ha previsto che l’obbligo di tutelare la sicurezza dei lavoratori (art. 2087 codice civile) si consideri assolto da parte dei datori di lavoro con l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 tra Governo e parti sociali, nonché negli altri protocolli e linee guida (decreto-legge n. 33/2020).

Dunque, per proteggere i lavoratori dal contagio, i datori non sono tenuti a ricorrere a ulteriori misure - cosiddette “innominate” – che, pur non dettate da norme, siano suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche o altro: sono sufficienti quelle dei protocolli citati.

Il falso “scudo” 

Va subito chiarito che non si tratta di uno “scudo”, anche se è stato spacciato come tale: agli imprenditori non basta assolvere agli adempimenti dettati dalle disposizioni della disciplina emergenziale anti-Covid per essere indenni da ogni responsabilità. Ciò per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo, oltre al rispetto dei protocolli citati dalla norma, il datore deve osservare anche il cosiddetto Testo Unico salute e sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 81/2008) che, tra i molti obblighi, pone a suo carico pure quello di sorvegliare affinché i lavoratori rispettino puntualmente ogni prescrizione in materia anti-infortunistica. E non è un obbligo di poco conto: l’imprenditore può essere ritenuto responsabile anche se l’infortunio sia dipeso da un comportamento «avventato, disattento, imprudente, negligente del lavoratore», dunque anche quando non abbia saputo prevedere che quest’ultimo avrebbe potuto violare le regole prescritte.

Amplissima è, pertanto, la portata della responsabilità datoriale. Altro che scudo: non basta un flag a ciascuna misura sancita da protocolli e linee guida - come la norma sembrerebbe far intendere – perché l’imprenditore sia esentato da ogni colpa.

In secondo luogo, è elevato il rischio per il datore di lavoro di violare qualcuna delle numerose, affastellate, poco chiare e talora contradditorie regole vigenti in materia di Covid-19. Un esempio può rendere il concetto più concreto. Nel protocollo del 24 aprile 2020, espressamente richiamato nella citata legge di conversione del decreto Liquidità, si prevede che il rientro in azienda di «lavoratori già risultati positivi all'infezione da COVID 19» possa avvenire solo con «certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone». Ma, ai sensi della circolare del ministro della Salute del 12 ottobre scorso, «le persone che, pur non presentando più sintomi, continuano a risultare positive al test molecolare per SARS-CoV-2, in caso di assenza di sintomatologia (…) da almeno una settimana, potranno interrompere l’isolamento dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi».

Dunque, una persona che non si negativizza dopo 21 giorni è comunque libera di muoversi, ma se il datore di lavoro la riammettesse in azienda violerebbe una regola del protocollo anti-Covid. È palese l’assurdo. E non basta: con quale causale il lavoratore, “tecnicamente” guarito ai sensi della circolare del ministro della Salute, potrebbe essere escluso dal lavoro, ma al contempo conservare il posto ed essere retribuito? E per quale durata? Fino a quando il governo non risolve l’intrico regolatorio?

Nessuna disciplina potrebbe esonerare da responsabilità i datori di lavoro che non rispettino le disposizioni di contrasto al virus. Sarebbe doverosa, invece, una normativa coerente, lineare, di inequivocabile interpretazione e applicazione. È la certezza del diritto.

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