All’ultimo Consiglio Europeo del 25 marzo Mario Draghi ha colto l’occasione per alcune considerazioni molto importanti per il futuro nostro e dell’Unione. Di queste, solo la proposta degli Eurobond ha avuto una certa eco. Ma c’era molto di più, e penso sia importante sottolinearne la rilevanza.

Gli Eurobond sono imposti dalla necessità di «disegnare una cornice per la politica fiscale […] in grado di portarci fuori dalla crisi. La strada è lunga, ma dobbiamo cominciare a incamminarci».

Per uscire dalla crisi serve una svolta nella crescita: «Iniziative di politica industriale comune possono contribuire a rafforzare la capacità d’innovazione in Europa […] penso alla crescita di nuove grandi imprese che operino nel settore delle tecnologie […]. Non sarà facile, visto il divario accumulato con gli Stati Uniti e la Cina».

Inoltre «un mercato europeo unico, coeso, permette anche uno sviluppo delle esportazioni intraeurope e dovremo gradualmente dipendere sempre meno dal resto del mondo per le nostre esportazioni, come avviene a tutti i grandi Paesi. E poi sono cresciute moltissimo le catene del valore».

Politica fiscale ed Eurobond non bastano, senza un mercato finanziario vasto ed efficiente: «La priorità assoluta deve essere non commettere errori durante la ripresa economica e guardare al modello Stati Uniti dove hanno un’unione dei mercati dei capitali, un’unione bancaria completa, e un safe asset».

Il tema del “dopo”

In piena emergenza, Draghi solleva il problema del “dopo”, non per distogliere l’attenzione dal quotidiano ma perché senza una visione di ampio respiro si rischia di passare da una crisi all’altra senza trovare una via di uscita: raro esempio di lungimiranza che dovrebbe contraddistinguere la politica.

Non ci potrebbe essere contrasto più stridente con il quotidiano della nostra classe politica. Draghi parla all’Europa ma il messaggio è per casa nostra: piaccia o meno, le prospettive dell’Italia dipendono dall’Europa, che a sua volta deve competere, schiacciata tra Usa e Cina.

La crisi da Covid lascerà in eredità una montagna di debito pubblico. Renderlo sostenibile dovrebbe essere la priorità.

È un fatto che il rapporto debito/Pil si riduce se l’economia cresce più degli interessi, e il saldo primario (entrate meno spesa pubblica prima degli interessi) è positivo.

La Bce, tramite l’acquisto massiccio di titoli, sta calmierando i tassi del debito pubblico. Alla lunga però non potrà più farlo anche se, come probabile, consolidasse nel suo bilancio il debito acquistato: con la ripresa si diffonderà l’aspettativa di una maggiore inflazione e gli investitori, per tutelarsi, richiederanno un maggior rendimento (un problema che sta già emergendo negli Stati Uniti). Anche volendo, la Bce non potrà contrastare i mercati all’infinito.

Per uscirne non possiamo fare affidamento solo sulla Bce; è necessaria una politica fiscale che sostenga gli investimenti con maggiore impatto sulla produttività, come nella tecnologia e nelle sue applicazioni. Ma, ricorda Draghi, è indispensabile procedere in modo coeso e mirato a livello europeo per raggiungere le economie di scala necessarie a recuperare il gap con Usa e Cina. Sono decisioni di investimento che devono essere coordinate e finanziate a livello europeo tramite, appunto, l’emissione di Eurobond. Col Next Generation UE si è cominciato a farlo.

Eurobond non significa anarchia fiscale a livello nazionale. I Paesi UE devono comunque assicurare la stabilità del proprio bilancio pubblico; ma Mes e Patto di Stabilità vanno ripensati dalle fondamenta, per evitare gli errori fatti dopo la crisi del 2011/2012, causa del divario di crescita con gli Usa.

La globalizzazione che resiste

Draghi ci ricorda inoltre che, nonostante le crisi finanziarie, il Covid, le politiche protezionistiche di Trump, o la recrudescenza dei conflitti geopolitici, il mondo rimane fortemente integrato sia finanziariamente sia economicamente, connesso da lunghe catene di produzione. Combattere la globalizzazione è inutile; ma bisogna rendere il sistema economico europeo più resiliente, sviluppando gli scambi intraeuropei e valorizzando le sue catene del valore. Il blocco del canale di Suez, la carenza di semiconduttori, i problemi con i vaccini oggi e coi ventilatori ieri, le ricorrenti crisi nelle forniture energetiche danno l’idea dell’urgenza.

La politica industriale deve anche promuovere la crescita di “nuove grandi imprese” nei settori tecnologici, dice Draghi. Non solo per contrastare i colossi americani e cinesi, ma perché le grandi imprese sono anche un potente volano per la ricerca: per esempio, negli ultimi tre anni, dieci grandi aziende americane da sole hanno speso in ricerca e sviluppo quanto l’intero pacchetto europeo Ripresa e Resilienza dedica alla transizione verde e digitale nei prossimi tre (circa 390 miliardi).

In cerca di grandi imprese

Non ci possono essere nuove grandi imprese europee senza un vasto mercato dei capitali e un sistema bancario unico che ne finanzi la crescita. Il supporto dello Stato è fondamentale, ma insufficiente senza il capitale privato.

Qui Draghi suggerisce di guardare al modello americano, per quanto distante dalla realtà europea. Il mercato del credito in Europa è ancora banco-centrico, e il sistema bancario frammentato all’interno dei confini nazionali, con istituzioni sottodimensionate e redditività insufficiente. Ma le fusioni transfrontaliere rimarranno una chimera finché non si taglierà il legame tra banche nazionali e debito sovrano, e si troveranno modi per condividere i costi sociali che le fusioni comporterebbero.

Dopo la crisi del debito pubblico del 2011/12 nessun depositante o socio di una banca è disposto ad accollarsi il rischio di una crisi del debito pubblico di un paese straniero in cui la banca opera.

L’unico modo per superare il problema, e arrivare all’unione bancaria, è l’introduzione di un safe asset liquido, in cui tutte le banche europee potrebbero investire: gli Eurobond servirebbero anche a questo; oltre a evitare che i rendimenti dei titoli di stato dei paesi fiscalmente virtuosi diventino negativi, distruggendo il risparmio previdenziale di quei paesi.

Ma è dal mercato dei capitali che vengono le dolenti note. Ho già ricordato come anche la tedesca BioNTech abbia dovuto quotarsi all’americana Nasdaq per raccogliere i capitali necessari per crescere.

Brexit è stata vista da Bruxelles come l’occasione per strappare a Londra il primato finanziario e creare un mercato unico dei capitali sul continente. Ma hanno prevalso localismi e nazionalismi con risultati sconfortanti: via da Londra, negoziazione dei titoli e attività di investment banking si sono sparpagliate tra Amsterdam, Parigi, Francoforte e Dublino; il trading dei derivati è stato in parte dirottato su Wall Street; mentre Londra continua a primeggiare nei segmenti cruciali delle quotazioni iniziali, venture capital e private equity.

Ma per il dibattito politico nostrano, tutto questo è solo fantascienza.

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