Su Domani del 5 Maggio, Gianfranco Pasquino invita gli intellettuali a contribuire alla conferenza sul futuro dell'Unione Europea, che parte il 9 Maggio. Il tema vastissimo scoraggia chi della schiera non è parte a delineare in un breve commento l'agenda del più ambizioso progetto politico della storia europea. Esso sospende la legge di gravità politica che regge il mondo ab immemorabilia, per cui le controversie si dirimono in guerra; vince il più forte e astuto. La seconda resta, la prima no. Un sogno per chi giocò fra le macerie delle case, distrutte dalle bombe che la nostra follia ci tirò addosso quasi ottant'anni fa; non a caso lo osteggiano autocrati, dittatori o aspiranti tali.

Sappiamo le differenze fra un'unione di stati per uno scopo preciso, una confederazione, e una federazione, quella cosa bella e impossibile, gli Stati Uniti d'Europa. Conosciamo le controversie sul ruolo delle tre grandi istituzioni politiche e sui relativi rapporti di potere, icasticamente resi dalla scena della sedia mancante ad Ankara.

Sappiamo il peso del metodo intergovernativo, che rafforza il ruolo del Consiglio Europeo, ove siedono i capi di governo, rispetto a Parlamento e Commissione Ue. È tuttavia utile riflettere su un singolo nodo, sciogliere il quale aprirebbe vaste praterie al progetto europeo.

Il nodo è l'unanimità, necessaria per gran parte delle decisioni del Consiglio; blocca i progressi imposti dal buon senso, prima che dalla teoria politica.

Lamentiamo i troppi paradisi fiscali europei che rubano risorse ai grandi Paesi, vittime della corsa al ribasso imposta dai piccoli per attrarre i domicili fiscali delle grandi imprese; lamentiamo la non collaborazione dei Paesi del Nord davanti ai flussi migratori, che poi tanto imponenti non sono.

Lamentiamo l'impotenza dell'Ue nello scenario geopolitico in continuo mutamento, specie nel Mediterraneo. Lamenti stolti, se non si trasformano nella grande spinta politica necessaria per rimuovere l'unanimità.

È di buon auspicio il ruolo che la Commissione si sta ritagliando con il Next Generation Eu. Sta a noi farne l'embrione dell'agognata “unione sempre più stretta”. Chi pensa agli Stati Uniti d'America rifletta sulle enormi differenze.

Allora pochi saggi e colti, aristocratici nel senso vero, trovarono nella storia i meccanismi per fare e pluribus unum. Fondere i molti in uno, contemperando i vari istituti, per assicurare il consenso dei federati mentre permetteva l'unità d'azione necessaria.

Non fu processo facile nemmeno quello, né privo di vizi; lo vediamo nel potere di condizionamento della maggioranza, assegnato a stati grandi e spopolati. Esso fa dell'estensione fisica degli stati  un elemento fondante del potere politico, ma funziona da quasi 250 anni.

Certo fu più facile metter d'accordo Massachusetts e Connecticut, nomi derivati dalle popolazioni soggiogate dai coloni, che non Francia, Italia o l'allora Repubblica Federale Tedesca, con i loro carichi di storia. Per riguardo a quei vincoli nasce l'obbligo dell'unanimità.

Le cose cambiarono certo, prima con l'entrata del Regno Unito e degli altri aderenti alla European Free Trade Association, poi con l'allargamento ai Paesi prima satelliti dell'Urss.

Da allora, anche per il peso crescente del metodo intergovernativo, quindi del Consiglio europeo, il nodo si stringe, lento ma inesorabile, al collo della Ue. Rimuoverlo pare impossibile, tenerselo è una condanna a morte. Solo si lo scioglie la Conferenza che sta per partire servirà a qualcosa.

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