In Italia abbiamo un rapporto ambivalente con le elezioni: da un lato sono considerate l’unico momento di vera democrazia, per effetto di un progressivo declino delle altre forme di partecipazione politica, dall’altro sono temute perché fonte di incertezza in un paese profondamente avverso al rischio.

Questa settimana dovremmo capire se il 2021 sarà un anno di elezioni anticipate, magari accorpate alle amministrative di primavera. Vedremo se Matteo Renzi ritirerà le sue ministre Bellanova e Bonetti e se questo porterà a un rimpasto, a un voto di fiducia con una nuova maggioranza o a un voto di fiducia senza maggioranza e dunque, presumibilmente, a elezioni anticipate. L’alternativa di un governo tecnico, anche affidato a una personalità di prestigio come Mario Draghi, pare oggi poco percorribile: avrebbe una maggioranza analoga a quella che oggi scricchiola.

Molti elettori faticherebbero a capire le elezioni durante la – prevista ma non arginata – terza ondata di pandemia, all’inizio della campagna vaccinale, nel momento decisivo della pianificazione dei 209 miliardi del Recovery Fund. All’ipotesi di voto anticipato si arriva però proprio perché questi gravi problemi sono stati degradati non dagli elettori, ma dagli eletti, a spartizione di potere, poltrone, visibilità e soldi.

Ognuno ha le sue colpe: il premier Conte nel suo tentativo (fallito) di accentrare a palazzo Chigi la gestione dei fondi europei, sommata all’ossessione per il controllo personale sui servizi segreti, i Cinque stelle nel loro sforzo costante di regolare le lotte di potere interne tramite provvedimenti di governo (l’unica ragione per cui l’Italia non chiede il Mes è evitare l’ascesa di Alessandro Di Battista a scapito di Luigi Di Maio), il Pd nel non aver saputo sfruttare le sue maggiori competenze di governo per dare un senso a un Recovery Plan che è risultato la somma di richieste di singoli ministri e di lobby, lasciando così spazio a Renzi per rivestire le sue ambizioni di protagonismo con critiche inappuntabili all’approssimazione del governo sul dossier. Alle quali infatti nessuno ha risposto.

I partiti di maggioranza si sono concentrati più sul palazzo che sul paese e l’unico risultato è quello di evocare elezioni che, ad oggi, vedrebbero prevalere una coalizione di centrodestra. Il paradosso è che il contesto esterno è quello più favorevole al centrosinistra attuale e più ostile a un governo Salvini (o anche Giorgetti): i sovranisti sono in declino ovunque, negli Stati Uniti c’è Joe Biden al posto di Donald Trump, l’Unione europea e la Bce non sono mai state così reattive e generose, i migranti sono l’ultimo dei pensieri per gli elettori adesso e tentare renderli capri espiatori del virus e della crisi economica sarebbe ridicolo.

Il gorgo di ambizioni personali – incluse quelle per la corsa al Quirinale nel 2022 – che sta risucchiando il governo Conte rischia di sputare fuori, dopo le eventuali elezioni, un esecutivo di centrodestra che sarebbe ancora più impotente di quello attuale, perché isolato. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sarebbero forse rassicuranti e moderati in campagna elettorale, ma tornerebbero presto a posizioni radicali e autodistruttive subito dopo, visto il contesto nel quale troverebbero più frustrazioni che successi.

Per tutte queste ragioni è più probabile che dal gorgo esca soltanto un rimpasto di governo che permetterà ai partiti di governo, ma anche a quelli di opposizione, di ritrovare un’illusione di normalità. Che poi questa sia la premessa per gestire in modo più efficace i grandi problemi di cui sopra è tutto da vedere. Ed è lecito dubitarne.

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