Stabilire il tasso di tecnicità e di politicità del governo Draghi può essere un esercizio interessante se seguito da una riflessione su quello che verrà. Finita quasi per miracolo la stupidissima diatriba, nella quale si sono distinti (sic) giornalisti e commentatori del Corriere della Sera e i loro ammiratori, sui governi non eletti dal popolo, non usciti dalle urne, potremmo decidere di usare qualche misurazione convincente dei governi non guidati da un politico. Il manuale Cencelli, basato sull’importanza di ciascun ministero, rimane certamente una guida utile.

A occhio mi sembra possibile sostenere che la tecnicità del governo Draghi prevale di pochissimo sulla sua politicità e unicamente grazie al peso giustamente ragguardevole della presidenza del Consiglio. I numeri contano, ma bisogna saperli contare. Tuttavia, anche le percezioni e le impressioni contano, eccome. Non c’è dubbio che, all’estero, sono la storia professionale e il prestigio di Draghi che sovrastano qualsiasi altro criterio e che consentono ai politici e agli operatori dei media europei e Usa di vedere in Draghi colui che ha messo da parte i litigiosi partiti e persegue una politica credibile a livello europeo.

La crisi dei partiti

Il punto della sospensione della politica, addirittura della democrazia, in Italia è stato variamente sollevato tanto con apprezzamento quanto con preoccupazione. Detto che la democrazia costituzionale non ha subìto nessuna ferita poiché il governo ha tutta la legittimità che gli deriva dalla fiducia del parlamento (che, incidentalmente, non può essere sciolto durante il semestre bianco, ma può fare cadere il governo), che i partiti svolgano un ruolo secondario è certamente visto con favore da moltissimi italiani. Ricordo che in tutte le statistiche i partiti vengono valutati positivamente dal 6/8 per cento degli italiani.

Che il governo Draghi costituisca una utile parentesi affinché i partiti italiani si riformino e diano vita ad un nuovo, migliore sistema dei partiti pare finora, e per quel che mi riguarda per parecchio tempo a venire, una non pia, ma pietosa illusione. Nel frattempo, i partiti stanno cercando i modi migliori per rimanere a galla, per non essere oscurati dal Presidente del Consiglio e dalle sue decisioni, per avere qualche visibilità su politiche che, talvolta, non condividono, ma che non hanno saputo contrastare proponendo alternative praticabili. Tirano la corda da una parte e dall’altra, ma Draghi procede imperterrito sostenendo alcuni suoi ministri tecnici anche quando ci sarebbe molto da discutere e migliorare. La giustizia è proprio una delle tematiche discutibili e migliorabili. Qui si situa il problema.

Rendere conto

Non importa in che modo un Presidente del Consiglio viene nominato e un governo viene formato. Il Parlamento mantiene tutti i suoi poteri e, nella misura in cui ne è capace, può esercitarli. Il vero problema dei governi guidati da uomini (e, eventualmente, donne) non politici è che possono agire senza dovere rendere conto a nessuno. Essendo molto improbabile (e sconsigliabile) che Draghi costituisca una sua lista e si candidi alle elezioni, il suo agire è tecnicamente e politicamente irresponsabile.

Democrazia è rendere conto da parte dei governanti ai cittadini di quello che si è fatto, non fatto, fatto male per ottenere un altro mandato. Questa accountability obbliga i governanti a prestare attenzione alle preferenze e alle esigenze dei cittadini, non necessariamente per soddisfarle tutte senza discussioni, anche per cambiarle. Altrimenti, il rischio è che molti settori di opinione pubblica accettino che qualcuno decida per loro, senza controlli e senza rendiconti. Irresponsabilmente.

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