La crisi del debito pubblico del 2012 ha palesato le conseguenze nefaste del legame tra il debito pubblico di un paese e il suo sistema bancario.

Se gli investitori cominciano a dubitare della sostenibilità del debito di uno stato, e prevalgono le vendite, i rendimenti sui titoli di stato salgono e il loro valore di mercato crolla, infliggendo perdite in conto capitale a chi li detiene, oltre ad aumentarne la rischiosità percepita.

Se il sistema bancario di un paese è molto esposto sui titoli del debito nazionale, la crisi del debito si trasforma in crisi finanziaria sistemica: le perdite sui titoli riducono gli utili; aumenta la rischiosità degli attivi bancari; il valore di mercato delle banche crolla; non riuscendo a ricapitalizzarsi, tagliano il credito per ridurre i rischi, esacerbando il rallentamento economico imposto dal riequilibrio delle finanze pubbliche.

Non è questione di spread

In Italia, questo legame è molto forte e aumenta i rischi nel caso di turbolenze che coinvolgano il nostro debito pubblico. Dei 2.767 miliardi di debito pubblico (tra titoli e prestiti, fonte Banca d’Italia) il 26 per cento, ovvero ben 710 miliardi è detenuto dalle nostre banche, a fronte dei 714 di Banca d’Italia (che è parte della Bce): ovvero gli acquisti da parte delle banche italiane hanno contribuito quanto la banca centrale a facilitare il finanziamento del deficit della pubblica amministrazione (Pa), stabilizzando rendimenti e spread. Ma data la già ingente esposizione verso la Pa, non si potrà più fare affidamento su ulteriori acquisti da parte del sistema bancario in caso di crisi.

Questi 710 miliardi, che stanno a fronte di 338 di patrimonio netto contabile complessivo, espongono il sistema bancario a perdite considerevoli in caso di aumento dei tassi e conseguente caduta del valore di mercato dei titoli di stato italiani, anche senza che aumenti il premio per il rischio Italia (lo spread). Non è irragionevole attendersi che salga l’intera curva dei tassi tedeschi, ora fortemente negativi al netto dell’inflazione: il rendimento sui Bund va dall’1,8 per cento a due anni, a poco sopra il 2 a 10 anni, contro un’inflazione prevista al cinque per cento l’anno prossimo e tra il tre e il quattro per cento anche al netto di energia e beni alimentari.

E il mercato dei futures incorpora l’aspettativa di un aumento del tasso Euribor a tre mesi di un punto percentuale da qui a fine anno, e di un altro punto per dicembre 2023. Quindi, se anche lo spread restasse invariato, i tassi italiani sarebbero destinati a salire. L’impatto può essere notevole: ipotizzando a mero titolo esemplificativo che la durata finanziaria media del debito pubblico nelle banche sia di cinque anni, un aumento di un punto della curva tedesca, anche a parità di spread, comporterebbe una perdita teorica di 35 miliardi per i bilanci bancari: il 10 per cento del loro patrimonio. In più ci sarebbe il probabile aumento dello spread in caso di crisi.

Naturalmente la mia è solo un’ipotesi, le regole contabili permettono di non valutare titoli e crediti a prezzi di mercato, e un aumento dei tassi migliora allo stesso tempo il margine di interesse e quindi gli utili delle banche. Ma rimane il fatto che gli investitori tengono in conto il legame tra debito pubblico e banche italiane, e penalizzano subito i loro titoli in Borsa alle prime avvisaglie di difficoltà nei nostri conti. Con il rischio che la crisi si autoalimenti.

L’accordo mancato

La responsabilità di questo legame non è solo delle banche: i titoli di stato italiani sono privi di rischio ai fini della regolamentazione e pertanto lo strumento adatto a soddisfare i parametri di liquidità e di patrimonializzazione (basati sulle attività aggiustate per il rischio). Sono i governi europei che non hanno saputo trovare un accordo sull’assicurazione unica dei depositi. Alcuni, tedeschi in primis, hanno sempre richiesto che il debito italiano fosse considerato rischioso, in cambio dell’adesione all’assicurazione comune sui depositi.

Mentre gli italiani hanno sempre giustamente obiettato che lo stesso trattamento avrebbe dovuto essere riservato alla misurazione del rischio delle posizioni nette in derivati delle banche tedesche e francesi. In questa diatriba si sono persi 10 anni, dimenticando che per rescindere il legame pericoloso tra debito pubblico e banche, e rendere più solido il mercato finanziario europeo, ci vorrebbe un vero safe asset in euro, unico per le banche di tutti i paesi, estremamente liquido, come lo sono i Treasury bond negli Usa.

Solo un titolo di debito in euro emesso dalla Commissione, garantito dal gettito fiscale di tutti i paesi dell’Eurozona, e gestito da un’apposita agenzia del debito, potrebbe assolvere a questo compito. Il debito con mutualizzazione del rischio emesso per finanziare il NextGeneration Eu poteva essere un primo grande passo in questa direzione. Ma, se mai nella visione di qualcuno questo progetto ci sia stato, oggi sembra essere tornato nel libro dei sogni. E se anche si realizzasse in futuro, non credo arriverebbe in tempo per la prossima crisi.

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