Sciogliere Forza Nuova, come propone il Partito democratico? Estendere il provvedimento a tutti i gruppi neofascisti, come vorrebbe Conte a nome dei Cinque stelle? Non farlo, perché potrebbe comportare una «sindrome della persecuzione», come ipotizza il giurista Michele Ainis, o conferire l’aureola del martirio ai militanti del movimento, rafforzandone l’attrattiva fra i simpatizzanti, come è arrivato a dire uno dei più acerrimi nemici dell’estrema destra, il giornalista Guido Caldiron? O evitare di farlo semplicemente perché i colpiti dal provvedimento si ritroverebbero immediatamente sotto un’altra sigla, un altro sito web, altre sedi, come si fa notare da varie parti?

Oppure… sciogliere nell’acido tutti i suoi militanti, come si legge in queste ore sulle pagine di Facebook di avversari non proprio animati da spirito gandhiano, che in alternativa suggeriscono di incarcerarli in blocco o deportarli in qualche isola deserta?

Il dibattito politico-intellettuale è aperto, da quando l’irruzione vandalica nella sede della Cgil ha fatto gridare al «ritorno dello squadrismo» e offerto nuovi argomenti a chi, già da anni, evoca lo spettro di una rinascita di un ritorno agli «anni bui» del ventennio in camicia nera. E, qualunque siano le decisioni che la magistratura o il governo assumeranno, promette di non chiudersi presto.

Fare i conti con il neofascismo

Guglielmo Mangiapane/Pool  AP)

Se affrontate in un’ottica di (qualunque) parte, le questioni riemerse a seguito delle violenze del 10 ottobre rischiano di portare a monologhi o a dialoghi fra sordi. Ma se l’osservazione si sposta su un’analisi più fredda e obiettiva, l’evento occasionale può offrire spunti a considerazioni meno affrettate e parziali su un fenomeno – quello del neofascismo – che attraversa la scena politica da 76 anni e non pare ancora aver esaurito il suo ciclo vitale. E che quindi appartiene a pieno titolo alla storia dell’Italia repubblicana ed obbliga, per farci i conti, a uno sforzo analitico che punti ad individuarne i motivi di persistenza, la reale consistenza, le varie manifestazioni, le sfaccettature, le contraddizioni.

Questo lavoro è stato iniziato nel 1987 da Piero Ignazi con il suo libro Il polo escluso, dedicato alle vicende del Movimento sociale italiano, e proseguito da vari politologi e storici, fra cui Roberto Chiarini, Paolo Nello, Giovanni Tassani, Dino Cofrancesco e chi scrive queste note, ma ha avuto un percorso difficile, per le frequenti interferenze esercitate sulla ricerca da preoccupazioni politiche, tanto che, dopo il periodo di curiosità per l’argomento coinciso con il ritorno della destra a ruoli di protagonismo a metà anni Novanta, si è riaperta quella stagione di «pamphlettistica apologetica o distruttiva» che Ignazi aveva deplorato. E sulle evoluzioni più recenti dell’area neofascista si sono accumulati molti più contributi ispirati all’ideologia della “democrazia militante” che studi basati su quella libertà dai condizionamenti delle proprie convinzioni e dai connessi pregiudizi di cui Max Weber ha fatto la pietra miliare delle scienze sociali.

Questa carenza di equilibrio si riflette sulla discussione odierna. Sulle cause che hanno portato sulla cresta dell’onda mediatica un gruppo dalla consistenza ristretta, che solo a Roma è in grado di portare in piazza una qualche forza d’urto e che – è opportuno ricordarlo – nel 2018 ha raccolto, in coalizione con il Movimento sociale-fiamma tricolore, lo 0,39 per cento dei voti, nessuno si è pronunciato, se non per riferirsi all’infiltrazione in fenomeni di protesta suscitati dalle conseguenze della pandemia.

La vera eredità di Gianfranco Fini 

Foto LaPresse

Qua e là, poggiando sul caso-Fidanza,  si è insinuato che ad alimentare la sopravvivenza di queste nicchie di nostalgici sarebbero connivenze celate di Fratelli d’Italia e Lega, intimando a Giorgia Meloni e Matteo Salvini di pronunciare una scontata e rituale sconfessione di gruppuscoli che semmai li danneggiano, offrendo del fascismo quell’immagine tutta e solo odio, rozzezza e violenza che ogni giorno gli viene addebitata dal fronte avversario.

A Giorgia Meloni, in particolare, si sono imputate colpe oggettive, sostenendo che il partito da lei diretto avrebbe interrotto o capovolto il processo di defascistizzazione di cui Gianfranco Fini era stato, a suo tempo, l’alfiere.

Chi ragiona in questo modo mostra una scarsa conoscenza dell’ambiente politico di cui parla. Se infatti una vera responsabilità, nella pur relativa e limitata fuoriuscita dall’inconsistenza numerica di questi gruppuscoli, va individuata, essa va fatta risalire proprio al modo in cui il leader di Alleanza nazionale concepì e mise in atto la sua presa di distanza da quel brodo di coltura del quale la sua ascesa si era alimentata.

Dopo aver proclamato nel congresso missino del 1990 la sua volontà di dar voce ad un «fascismo del 2000» e messo in guardia il rivale Pino Rauti dal rinunciare al simbolo della fiamma tricolore, Fini, cogliendo con tempismo e grazie all’assist di Silvio Berlusconi l’inattesa opportunità di compiere in un solo balzo il passaggio da un’opposizione marginale e inefficace alla piena ammissione nell’area delle responsabilità governative, invertì frettolosamente la marcia intrapresa da fedele discepolo di Giorgio Almirante e custode della sua memoria – che implicava l’impegno a non restaurare, sì, ma anche non rinnegare, l’esperienza fascista –, per giungere in tempi rapidi al lavacro di Fiuggi, in cui, fra ambiguità e virtuosismi dialettici, del peso di quell’eredità si tentò di sbarazzarsi senza approfondimenti o revisioni critiche che mirassero a separare il grano dal loglio di quella cultura politica su cui, da sempre, il Msi si era fondato.

Non ci fu, in quell’operazione, nessun travaglio sincero (ai vertici, perché per la base il discorso era diverso), nessuna eco di quella faticosa ricerca di distinzioni fra gli ideali, le illusioni, gli errori, le “deviazioni” del comunismo che il Pci aveva condotto all’indomani della caduta del muro di Berlino. E lo strappo, per quanto ancora piuttosto indefinito nei confini, provocò un primo trauma fra i fedelissimi, con una scissione che fece ripiombare nella sindrome nostalgica persino alcuni fra coloro, Rauti in testa, che in precedenza si erano fatti alfieri di un rinnovamento e di un’apertura alla modernità di una formazione politica anchilosata nel culto delle memorie.

Le zavorre e la diaspora

lapresse

Sul momento, comunque, gran parte degli iscritti seguì il solco tracciato dal Capo, inebriata dagli insperati successi – ministri, sottosegretari, una sostanziosa pattuglia parlamentare – molto più che convinta della bontà di certe affermazioni revisioniste contenute nelle tesi congressuali. Ma le cose andarono peggiorando di anno in anno, quando lo stesso opportunismo che aveva ispirato il cambio di nome spinse ad altre virate, nel tentativo finiano di far diventare An un polo di richiamo per i moderati forte altrettanto, se non più, di Forza Italia.

La confluenza con Segni e alcuni radicali in una lista per le elezioni europee e i sempre più frequenti giudizi negativi sul fascismo, che ormai avevano sostituito la precedente promozione di Benito  Mussolini a «più grande statista del Novecento», iniziarono a preoccupare, e poi irritare, molti militanti. Soprattutto fra i giovani, la svolta non fece effetto, e le loro pubblicazioni continuarono a mostrare un aperto interesse, se non una aperta identificazione, nei confronti dei nomi e dei temi classici della cultura neofascista.

Questo atteggiamento, che pure in genere non andava oltre la fascinazione intellettuale ed estetica, era vissuto da Fini con evidente e crescente fastidio, perché zavorrava il suo progetto di normalizzazione e legittimazione. Nessun tentativo venne fatto per modificare la situazione con un programma di formazione, una scuola di partito, un confronto aperto.

La soluzione scelta fu l’offuscamento della visibilità e la progressiva emarginazione del movimento giovanile, completato con il suo annacquamento nella fusione con le sparute truppe dei giovani di Forza Italia all’epoca del Popolo delle libertà.

La frase sulle leggi razziali come manifestazione di un fascismo «male assoluto» aveva peraltro già aperto la via ad una emorragia di giovani militanti, il cui esodo iniziò a fare la fortuna dei gruppuscoli più estremi. Una diaspora che solo con l’ascesa di Fratelli d’Italia si è, in parte, arrestata.

Per un curioso paradosso, quindi – o meglio, un’eterogenesi dei fini, un effetto boomerang –, è stato proprio il desiderio di rinnegare, piuttosto che di superare, il fascismo da parte di chi a lungo se ne era proclamato erede a gonfiare le fila della compagine dei suoi nostalgici.

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