Sono passati undici anni da quando ho ricevuto la prima telefonata da Ilaria Cucchi. Aveva appena visto il povero corpo del fratello Stefano all’obitorio di piazzale del Verano. Era morto dopo un calvario di una settimana, arrestato, pestato, lasciato morire. Ilaria mi chiedeva aiuto. Quel che entrambi non sapevamo era che i depistaggi dei responsabili e dei loro superiori in divisa erano già iniziati, silenti ma terribilmente efficaci.

Percorrevano un duplice binario: quello della negazione del suo pestaggio durante il periodo di tempo nel quale «il soggetto» risultava sotto custodia dei carabinieri e quello prettamente medico legale, a partire dalla descrizione fisica delle sue condizioni fisiche durante la notte trascorsa alla Caserma di Tor Sapienza.

In buona sostanza la verità doveva essere che se Stefano Cucchi era stato picchiato da qualcuno, a usare la violenza non potevano essere stati i militari dell’Arma. E siccome era morto dopo sei giorni di ospedale, ricoverato per il pestaggio subito, lui era mancato perché stava male di suo. Il 27 ottobre vengono falsificate le annotazioni dei due piantoni che ebbero modo di vederlo la notte del suo arresto.

Il problema è la magrezza

Il forte male al capo, i giramenti di testa, il dolore al costato e il non poter camminare vengono depennate e sostituite con «un malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza, al freddo ed alla scomodità della branda» nonché alla «sua accentuata magrezza».

Se poi ci aggiungiamo anche l’anoressia e la sieropositività, che verranno subito dopo introdotte negli atti ufficiali dei carabinieri, ecco terminata l’opera. Come trasformare un ragazzo sano, uscito dalla palestra un paio d’ore prima del suo arresto, in un dead man walking. Con buona pace di tutti. Soprattutto della famiglia che non si arrenderà mai a una così grossolana ma autorevolissima mistificazione. Gli atti in cui essa si articola sono molteplici e portano la firma dei vertici della «scala gerarchica».

La scala gerarchica è un’entità astratta cui si è fatto costante riferimento nel cosiddetto Processo “bis”: quello terminato con la condanna a 12 anni di carcere per i carabinieri che sono stati finalmente identificati come i responsabili di quel violentissimo pestaggio che portò a morte Stefano Cucchi. Tanti militari, che sono stati sentiti come testimoni, hanno fatto riferimento balbettanti e sudati a questa entità definita come scala gerarchica.

Ordini superiori

Nel processo “ter” la scala gerarchica ha volti e nomi. Sono gli imputati e sono otto. Durante le indagini sono stati interrogati dai pubblici ministeri. Questa volta sono stati loro a sudare e balbettare, tentando affannosamente di giustificare ciò che non era proprio giustificabile e cedendo volentieri alla nobile tentazione dello scaricabarile. Anche i testimoni vi appartengono, colonnelli e generali.

Giusto ieri è stato sentito in udienza il generale Luongo, autore di una brillante nota, rivolta sempre «ai suoi superiori», nella quale si tentava di sminuire, confutare o mettere in discussione ciò che era stato scoperto durante le indagini riaperte dopo l’assoluzione di tutti gli imputati da parte della Corte d’assise d’appello di Roma del 31 ottobre 2014. Aveva impiegato un mese a redigerla. Era il 9 gennaio 2016 quando venne licenziata.

Epilessia

L’elemento di novità dirompente era stato la fantasiosa introduzione, «nella ricostruzione dei fatti» di un attacco epilettico di cui sarebbe stato vittima Stefano proprio la notte del suo arresto. Nulla di più sbagliato, per non dire falso. Il generale viene per ore incalzato dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Arretra, tenta di spiegare ma non sempre ci riesce. Ammette di aver fatto una figuraccia (testuale) riguardo allo sbianchettamento del registro di foto segnalamento per coprire il nome Stefano Cucchi.

Quando si parla delle due annotazioni dei piantoni di Tor sapienza, gli chiedo se, prima di esaminare e giudicare ininfluenti le evidenti differenze nella descrizione delle condizioni fisiche di Stefano dopo il suo arresto, la notte del 16 ottobre 2009, avesse per caso visto quelle terribili foto che la famiglia aveva da tempo diffuso come disperato atto di denuncia.

«Sì avvocato, le avevo viste», ha risposto. «Se le ha viste, generale, come ha fatto a non pensare che non fossero rilevanti il male al capo, i giramenti di testa, il dolore al torace ed il non poter camminare?». La risposta francamente non l’ho capita. Stefano Cucchi poteva essere morto per qualsiasi cosa a patto che non fosse riconducibile alle lesioni riportate dalla botte. Di fame, di sete, di droga, di epilessia. Stefano Cucchi era di fatto un dead man walking. Ma sua sorella non la pensava cosi. E non solo lei.

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