Nella sua analisi economica dell’Italia di settembre l’Ocse prevede una crescita del Pil per quest’anno del 5,9 per cento; una revisione al rialzo rispetto al 5 e 4,9, rispettivamente, che Eurostat e Fondo monetario internazionale stimavano solo nel luglio scorso, previsioni che a loro volta erano state riviste in aumento rispetto alla primavera. E c’è chi pensa che a fine anno potremmo aver sforato il muro del 6.

Non è da meno il settore privato con una stima di consenso degli analisti che a luglio è già arrivata a superare il 6 per cento (ma ridotta ora “solo” al 5,1 per via dei timori legati alla variante delta, l’autunno e la riapertura delle scuole).

Per trovare nella storia italiana una crescita del 6 per cento bisogna andare indietro al 1979, crescita superata solo nel 1976 con un 7,1. Sono numeri a cui non siamo più abituati e potrebbero dare, sia nell’opinione pubblica che nella classe politica, un pericoloso senso di euforia se non contestualizzati: anche una palla sgonfia che cade da un grattacielo rimbalza.

Più illuminante il confronto dell’andamento italiano rispetto agli altri paesi, visto che il Covid è uno shock reale comune a tutti. Inoltre, invece di guardare al dato della crescita annuale del Pil, che misura il livello medio di un anno rispetto al precedente, è meglio prendere in considerazione i dati trimestrali perchè possono dare una migliore rappresentazione della dinamica nel corso dell’anno.

Sempre ultimi

Ho così preso le più recenti stime dell’Ocse (che assicurano l’omogeneità di calcolo per tutti i paesi appartenenti all’organizzazione) per il quarto trimestre del 2022, quando presumibilmente la crisi da Covid sarà interamente riassorbita, e confrontato con il dato dell’ultimo trimestre del 2019, l’ultimo prima del Covid.

I dati mostrano che l’attuale crisi ha lasciato immutate le dinamiche che avevano caratterizzato il decennio pre Covid: l’Ocse stima che gli Usa faranno meglio dell’Eurozona (106,4 rispetto a 102,5, fatto 100 il Pil nell’ultimo trimestre 2019); i paesi emergenti, Cina inclusa (a 108,9) fanno meglio degli Stati Uniti; l’Eurozona fa meglio del Giappone ma peggio del Regno Unito; nell’Eurozona svetta la Germania (103,2 sopra la media) mentre arranca l’Italia (100,6, fanalino di coda).

Ultimi da un decennio, entrati come ultimi nella crisi, ne usciremo sempre ultimi, aumentando il distacco rispetto sia all’Eurozona che al mondo. Almeno stando all’Ocse, anche se le sue previsioni tipicamente non si differenziano troppo da quelle degli altri.

Il Pnrr cambia poco

Si potrebbe argomentare che il confronto tra paesi andrebbe fatto non tanto con la stima di dove saremo a fine 2022, ma con la stima del livello di Pil che ci sarebbe stato se non ci fosse stato il Covid. A prescindere dall’ovvia arbitrarietà nel decidere come sarebbe stato il mondo senza pandemia, servirebbe solo a giustificare lo status quo italiano di lumaca del mondo: visto che per dieci anni siamo cresciuti molto meno degli altri, nell’ipotetica assenza del Covid avremmo continuato a crescere meno degli altri, giustificando così un gap che si allarga. Non cero illuminante.

Ma c’è il Pnrr! Tutto da dimostrare che serva a ridurre il gap di crescita dal 2023 in avanti: una grande responsabilità per chi ne gestisce e gestirà le risorse, visto che il tanto debito a fronte delle risorse pubbliche erogate è un dato concreto e reale, non una stima.

Le previsioni macroeconomiche hanno però un difetto: guardano alle imprese e ai consumatori da molto in alto, come fossero grandi aggregati, non riuscendo così a cogliere con sufficiente rapidità cambiamenti nei comportamenti, specie quando accade una forte discontinuità come il Covid, con una tendenza quindi a estrapolare il passato.

Ho pertanto guardato all’evoluzione dell’economia da fine 2019 al 2022 attraverso le lenti delle singole imprese, che sono vicine al mercato e ai loro clienti, tramite le aspettative degli analisti delle imprese quotate in Borsa.

Se si guarda all’andamento dell’indice Ftse Mib dai livelli pre-crisi a oggi, si vede come il mercato azionario italiano abbia fatto peggio dell’equivalente dell’area euro (EuroStoxx) avendo registrato un +9,6 per cento nel periodo, rispetto a +15,7.

Ma il gap di rendimento, più che a un ritardo di performance economica, è ascrivibile alla composizione delle nostre grandi aziende quotate, in settori quali banche, energia, servizi di pubblica utilità, telecomunicazioni, dai margini stabili perché prevalentemente regolamentati e poco esposti alla concorrenza, ma poco esposti alla tecnologia e alla crescita e quindi con multipli di valutazione contenuti.

Molto più significativo il confronto con l’indice delle piccole e medie imprese italiane (Ftse Italia Small e Mid) con quello dell’Eurozona (Euro Stoxx Small). I due indici hanno una composizione settoriale non troppo dissimile ed entrambi includono aziende con una capitalizzazione massima intorno a 6-7 miliardi (Reply e DeLonghi sono le due maggiori italiane). La differenza è nella dimensione media, molto più piccola quella delle società italiane, ma che rispecchia il nanismo delle nostre aziende.

Se si guarda alla performance degli indici si vede come quelli delle piccole e medie società, sia italiane sia europee, abbiano fatto molto meglio dei relativi indici nazionali durante il Covid; quelle italiane poco peggio delle equivalenti piccole europee.

Ma importanti differenze emergono se si guardano alle stime degli analisti per le singole società che compongono l’indice (fonte Factset). Per quelle italiane ci si aspetta che l’utile medio per azione cresca nel triennio 2019-2022 a un tasso annuo del 10,4 per cento a fronte di un +7,9 del fatturato, e margini (risultato operativo su fatturato) stabile attorno al 9,5 per cento. Diverse le attese per le piccole imprese europee: una crescita più elevata degli utili nel triennio (+13,7), e margini in aumento al 12,4, pur con un fatturato praticamente stabile.

Chiara evidenza che le piccole e medie imprese italiane operano, al contrario delle europee, in settori a relativa bassa crescita della produttività e tecnologia, dovendo così necessariamente aumentare i ricavi per far crescere gli utili perché, a differenza che in media nel resto dell’eurozona, hanno difficoltà ad aumentare i margini unitari. È inoltre significativo che gli analisti stimino che l’indice delle piccole società europee, ai prezzi di borsa attuali, avrà un rapporto prezzo/utili di 18,5 volte, praticamente uguale a quello dl 2019. L’analogo rapporto atteso per l’indice italiano sale invece significativamente da 16,3 volte del 2019 al 18,2 del 2022 segno che il mercato sconta una più forte crescita degli utili anche dopo quell’anno. Non molto razionale.

Forse la pericolosa euforia non riguarda solo la nostra crescita economica, ma ha cominciato a contagiare anche gli investitori nei titoli delle nostre piccole e medie imprese. Non rimane che augurarci che il risveglio un domani non sia troppo brusco.

© Riproduzione riservata