Qualche giorno fa, su queste pagine Giorgia Serughetti ha parlato di «spettacolarizzazione» della scienza che nell’ultimo anno è parsa smarrire «il suo ruolo, che richiede imparzialità, libertà e non impegno nel campo politico».

«In Italia il parere degli esperti ha rappresentato spesso il paravento dietro cui si sono nascoste decisioni politiche impopolari», continua Serughetti, la quale rileva al contempo «il fenomeno della sovraesposizione mediatica di figure di scienziati ed esperti».

Com’è potuto accadere tutto questo? Può essere utile qualche considerazione anche sul piano del diritto. La trasparenza delle decisioni pubbliche avrebbe forse consentito di evitare certe strumentalizzazioni della scienza. Al riguardo, come si sta orientando il governo Draghi?

La scienza come paravento

L’ultimo anno è stato connotato dalla convinzione, da un lato, che in nome della tutela della salute tutto fosse lecito; dall’altro lato, che ogni scelta in tema di pandemia dovesse conformarsi ai pareri degli scienziati, in particolare a quelli del Comitato tecnico scientifico. Entrambi gli elementi hanno costituito per il Governo l’alibi perfetto per evitare di dimostrare con chiarezza le motivazioni poste a base delle proprie scelte, nonché per deresponsabilizzarsi rispetto alle conseguenze delle scelte stesse.

Infatti, rivendicando la conformità dei provvedimenti alle indicazioni degli scienziati, il decisore non solo ha abdicato al ruolo che gli compete - operare un bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti nelle scelte (sanitari, economici, sociali ecc.) - ma soprattutto ha evitato di rendere conto del proprio operato.

Anche per un altro versante la scienza è stata usata come “scudo”: ribadendo che essa ha guidato le decisioni della politica, i governanti hanno potuto dire “non abbiamo sbagliato niente”. Tuttavia, il fatto che i pareri scientifici non fossero resi pubblici in occasione di ogni decreto, da una parte, non ha consentito di verificare in concreto l’effettiva rispondenza delle misure limitative di libertà e diritti ai pareri stessi; dall’altra parte, ha fatto passare il messaggio che essi non solo non si dovessero discutere, ma nemmeno leggere e capire.

Insomma, la scienza ha rappresentato un paravento per eludere la trasparenza che deve connotare ogni scelta del potere pubblico: se pure basate su criteri scientifici, le scelte del governo restano sempre e comunque politiche.

L’obbligo di essere trasparenti

In presenza di provvedimenti che dispongono una sensibile riduzione delle libertà personali, la trasparenza non è una fisima: il decisore deve comprovare adeguatezza, necessità, proporzionalità dei provvedimenti stessi.

Questi principi giuridici sono gli argini che l’ordinamento pone a compressioni di diritti: ogni misura restrittiva adottata per contrastare la diffusione del virus deve essere idonea a raggiungere gli obiettivi perseguiti; necessaria, e non semplicemente utile; meno penalizzante possibile e proporzionata rispetto allo scopo.

L’unico modo per dimostrare il rispetto di tali principi è la trasparenza di dati e analisi sui contagi, sull’efficacia o meno delle azioni già implementate, sulla comparazione di effetti tra misure diverse, anche in base a evidenze rivenienti da esperienze di altri paesi.

Solo con dati resi pubblici, infatti, può comprovarsi che le restrizioni non limitano eccessivamente e ingiustificatamente la libertà dei singoli, ma sono proporzionate al rischio che si corre. Insomma, ciò che finora è mancato nel susseguirsi di provvedimenti per l’emergenza Covid-19.

Se, per esempio, si decide di chiudere certi locali in determinate fasce orarie, occorre giustificare concretamente che in quegli orari tali luoghi favoriscono la trasmissione del virus così da rendere imprescindibile il sacrificio degli interessi economici delle categorie interessate.

Non è bastato, nel mese di novembre, cambiare il sistema delle restrizioni, con la classificazione delle regioni in zone di rischio e limitazioni connesse ai diversi colori, quindi con un bilanciamento di diritti fatto a monte.

Senza la trasparenza necessaria sul meccanismo di elaborazione di dati - rivelatisi talora incompleti, imprecisi e temporalmente sfasati – non può essere verificata l’esattezza dell’inserimento delle regioni nell’una o nell’altra fascia e, di conseguenza, la proporzionalità delle restrizioni rispetto all’effettiva condizione sanitaria. E così si torna al punto di partenza.

Vuoto di trasparenza 

L’assenza di trasparenza, dunque, determina un vuoto sul piano del diritto così come della comunicazione. Le due dimensioni si tengono tra loro. Una chiara e completa informazione istituzionale – che è cosa diversa da emozionali conferenze stampa «col favore delle tenebre», notizie fatte filtrare per sondare le reazioni o veline inviate a redazioni di giornali - dovrebbe spiegare le misure adottate sulla base dei tre principi giuridici sopra indicati, supportandole con dati. Altrimenti, resta carente pure la motivazione sottostante, come detto.

E quando nelle sedi istituzionali manca una buona comunicazione sui criteri decisionali, scientifici e non, tale mancanza viene riempita dal caos di altre voci. Questo spiega l’affollamento degli scienziati nei talk-show nell’ultimo anno.

In assenza di dati chiari, univoci e dettagliati sui quali dibattere in modo informato e consapevole, ogni “tecnico” ha potuto dare molteplici valutazioni della situazione epidemiologica in atto e altrettante soluzioni, fondate su parametri e motivazioni differenti. Insomma, il vuoto di una precisa e univoca comunicazione ufficiale è stato sostituito dalle indicazioni più varie, e talora contrastanti, profuse nei talk show.

«Se il disaccordo tra scienziati è inevitabile, ed è vitale per il progresso della ricerca, la sua spettacolarizzazione induce nel pubblico confusione, e la fatale sensazione di ricevere, anziché informazioni basate su evidenze, opinioni di parte» - ha scritto Giorgia Serughetti - «per lo stesso motivo, sollecita dietrologie riguardo agli interessi in gioco». 

Ciò è stato alimentato dalla circostanza che, nella varietà delle opinioni degli esperti, leader politici hanno reso l’uno o l’altro portatore della linea di gestione della pandemia più confacente al proprio partito.

Il governo Draghi ha adottato un primo decreto-legge, con cui ha introdotto una stretta degli spostamenti nelle regioni “rosse” e confermato altre misure.

Se di certo è apprezzabile l’assenza di anticipazioni e retroscena, va tuttavia aggiunto che è mancato un chiarimento circa i criteri guida del nuovo provvedimento, che nella sostanza è in linea con quelli del Governo precedente.

Il primo atto sarebbe stato una buona occasione per inaugurare un metodo trasparente, rendendo noti i dati e le analisi su cui si basa. Il rischio è che il vuoto comunicativo del presidente del Consiglio sia riempito, anche a sproposito, dalle solite voci confuse, nei talk show come sui social. La pandemia prosegue. La trasparenza informativa non può più aspettare.

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