Ora che comincia il secondo anno del secondo mandato di Sergio Mattarella nessuno dirà di lui quel che si disse a suo tempo di Amintore Fanfani: rieccolo (copyright di Indro Montanelli).

Perché il capo dello stato non è mai andato e venuto. È sempre stato lì. E dunque si è fatto punto d’onore di non sorprendere, di non ingombrare, di farsi presenza costante ma non rapsodica, discreta e non epica, silenziosa per quanto è possibile, autorevole senza essere mai lontanamente minacciosa.

Eppure, un filo sottile sembra legare tra loro queste due differenze di uomini lontani nel tempo. Nella sua campagna elettorale più brillante (1958) Fanfani proclamò il suo obiettivo: «Progresso senza avventure».

Qualche decennio dopo Mattarella si è offerto al paese e alle istituzioni come un progressista per niente avventuroso.

Amintore Fanfani

La seconda presidenza di Mattarella è, per così dire, preterintenzionale. Non si può dire che l’abbia voluta, e neppure però che l’abbia subìta. Egli s’è trovato investito dall’aula parlamentare prima ancora che dai partiti che s’illudevano di governarla. E forse anche scelto dal paese prima che dalla politica.

Poteva proporsi, e non l’ha fatto. Poteva sottrarsi, e non ha fatto neppure questo. Cospicua differenza da quel suo lontano antenato, Fanfani appunto, che inseguì il traguardo presidenziale più volte e in molti modi; e che di questa sua ambizione non fece mai mistero.

L’idea che guidava Fanfani era che le istituzioni dovessero essere conquistate. L’idea che guida Mattarella è che le istituzioni siano piuttosto il limite frapposto alle conquiste altrui. Il primo ambiva al Quirinale per dare corpo e vigore alla sua politica. Il secondo ha accettato di rimanervi per evitare che la politica fosse tentata di debordare. Quella degli altri, ma perfino la sua o quella dei suoi cari. Così, capitava che l’uno ai suoi tempi fosse gravato dal sospetto di coltivare mire gaulliste (all’epoca un capo d’accusa di una certa gravità), mentre l’altro viene ora vissuto come il più serio e robusto e tenace argine che si oppone alle propensioni gaulliste, o presidenzialiste, dei giorni nostri.

Atlantismo

Sembrerebbero, insomma, agli antipodi. Quasi all’opposizione l’uno dell’altro perfino nel loro diverso protendersi sulla scena internazionale. Laddove Fanfani ai suoi tempi inviava il fido Bernabei presso l’ambasciatore russo Ryzkov a cercare di propiziare i voti dei comunisti italiani per il Quirinale.

Mentre Mattarella ha tenuto una linea rigorosamente atlantista ancor prima dell’aggressione russa all’Ucraina. Due posizioni nelle quali si può ravvisare una evoluzione di entrambi rispetto ai loro stessi ambienti di provenienza, dato che la destra democristiana fu sempre ben dentro l’ortodossia atlantista e la sinistra democristiana se ne tenne invece quasi sempre ai margini.

Eppure, a tenerli assieme a dispetto di differenze così profonde sembra essere la primazia che entrambi assegnano al valore del carattere. Avendo caratteri ben diversi, come s’è appena detto. Ma essendo affezionati, molto affezionati, tutti e due alle loro peculiari personalità politiche.

Decisionismo vs basso profilo

Uno in nome del proprio decisionismo, della propria impetuosità, del gusto inebriante con cui attraversava le dispute che era straordinariamente capace di suscitare. E l’altro in nome della regola del proprio basso profilo. Una regola che trova quasi ogni giorno la sua conferma nella postura, nel tono di voce mai enfatico e quasi sommesso, nella singolare discrezione con cui amministra se stesso da molto prima di diventare capo dello stato.

Ognuno rigorosamente calato nei propri panni e incline a non fare mai eccezione alle proprie regole. E ognuno però singolarmente capace di sfidare il vento contrario delle mode o degli avversari o anche delle momentanee convenienze.

Viene da pensare a come si sarebbe portato Fanfani se da capo dello stato avesse dovuto fare i conti con un governo di segno politico diverso dal suo. E a come affronta invece la questione Mattarella, sempre così attento a fare in modo che le sue preferenze e i suoi orientamenti non abbiano a sviarlo dai suoi doveri di arbitro di un gioco che forse non gli appartiene più di tanto.

Così, oggi, si immagina che Giorgia Meloni trovi riparo alla fatica di governare confrontandosi con un presidente né complice né troppo ostile, mentre una ipotetica Meloni dell’altro ieri si sarebbe probabilmente trovata ai ferri corti con un presidente assai più imperioso e vulcanico.

Inquietudini di senso diverso

In questa differenza, sia pure descritta in un puro gioco di improbabili simulazioni, si può intravedere uno dei dilemmi di sempre della nostra contesa politica. E cioè la distinzione tra chi sente il dovere di giocare d’iniziativa, assumendo il rischio della sconfitta. E chi invece ritiene che le iniziative altrui debbano dispiegarsi liberamente salvo tracciare il confine invalicabile dei diritti di uno stato che deve sempre ergersi al di sopra, e possibilmente al di fuori, della contesa tra le parti.

C’è da scommettere che molte inquietudini abbiano attraversato l’animo di Fanfani ai suoi tempi. E che molte altre turbino la (apparente) tranquillità quirinalizia di Mattarella ai giorni nostri. Ma sono inquietudini di segno diverso.

Nel senso che Fanfani amava affrontarle peccando per eccesso, come si conveniva a chi era appena uscito dalla guerra. Mentre Mattarella sembra aver tratto dal teologo gesuita Baltasar Gracián l’indicazione che sia meglio semmai peccare per difetto, accettando anche di considerare l’omissione come uno dei criteri del buon governo.

Naturalmente si possono mettere tutte queste differenze nel conto di due stagioni diverse della politica italiana. Come a ricordare una volta di più che è il tempo a determinare le cose e a rintracciare dentro di esse i torti e le ragioni. Nell’attesa che un tempo ancora più lontano, di là da venire, ci aiuti a capire di quante dosi di Fanfani e di quante di Mattarella avrà bisogno l’equilibrio politico del nostro paese. Sempre periclitante a dispetto del valore di alcuni dei suoi uomini più significativi.

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